I pm indagano su tangenti PD, finalizzate quando Penati era capo della segretaria di Bersani
MILANO – Dal Pci al Pd, da Greganti a Penati, dalle lire agli euro. In mezzo, quasi 20 anni trascorsi da Mani pulite. Bruno Binasco, l’imprenditore arrestato nel 1993 per aver finanziato illecitamente il Pci tramite «il compagno G» Primo Greganti con 150 milioni di lire di mancata restituzione di interessi su una caparra immobiliare, è ora indagato dalla Procura di Monza per aver finanziato illecitamente con 2 milioni di euro nel 2010 il leader del Pd lombardo Filippo Penati, di nuovo con un meccanismo ruotante attorno a una caparra.
Anche in questa vicenda, come già per i 4 miliardi di lire in contanti che il costruttore e consigliere comunale di centrodestra Giuseppe Pasini dice di aver dato all’estero nel 2001 a due fiduciari dell’allora sindaco ds di Sesto San Giovanni (il futuro capo di gabinetto Giordano Vimercati e l’imprenditore del trasporto urbano Piero Di Caterina), il percorso dei soldi ipotizzato dai pm Walter Mapelli e Franca Macchia non è rettilineo, ma triangolato: un finanziamento illecito perfezionato a fine 2010 (quando Penati era capo della segreteria di Bersani) benché ideato nel 2008 (quand’era presidente della Provincia di Milano), secondo lo schema di una simulata trattativa d’acquisto da parte di Binasco di un immobile dell’imprenditore Di Caterina, quello che ha rivelato ai pm di aver finanziato il partito di Penati nella seconda metà anni 90, a volte anche con 100 milioni di lire al mese.
La finta maxi-caparra del manager di Gavio
Il finanziamento illecito, alla fine, avrebbe assunto appunto la forma di una caparra immobiliare versata dal 66enne Binasco, più volte arrestato in Mani pulite ma quasi sempre sgusciato tra prescrizioni e assoluzioni. Storico braccio destro dello scomparso nel 2009 Marcellino Gavio, e amministratore delegato della cassaforte del gruppo (che gestisce 1.200 km di autostrade, è primo azionista di Impregilo e macina 6 miliardi di euro di fatturato), Binasco firma nel 2008 un contratto preliminare per l’acquisto di un immobile di Di Caterina, valutato in partenza a un prezzo molto alto. Ma, nel farlo, Binasco verga a mano una clausola che prevede che Di Caterina incameri una caparra generosissima, di ben 2 milioni di euro, nel caso in cui Binasco non eserciti l’opzione d’acquisto entro il 2010. E’ esattamente quello che accadrà, ma che per gli inquirenti «doveva» accadere sin dall’inizio: Binasco nel 2010 lascia decadere l’opzione, e così effettua quello che l’accusa qualifica finanziamento illecito di 2 milioni al pd Penati, perché in questo modo estingue nel 2010 un «debito» che Penati nel 2008 si era visto reclamare dal finanziatore Di Caterina.
«Caro Penati, caro Binasco vi ricordate i miei soldi?»
Nelle mani degli inquirenti, infatti, è caduta una missiva molto aspra indirizzata nel 2008 da Di Caterina non solo all’ex sindaco ds di Sesto San Giovanni ma anche a Binasco, sequestratagli nel portafoglio dai finanzieri della polizia giudiziaria milanese nel luglio 2009: «Nel corso degli anni, a partire dal 1999, ho versato a vario titolo, attraverso dazioni di denaro a Filippo Penati, notevoli somme» di cui «il sottoscritto ha cercato di tornare in possesso, ma, salvo marginali versamenti, senza successo. Penati ha promesso di restituire, dopo estenuanti mie pressioni, proponendo nel tempo varie opzioni che si sono rivelate inconcludenti fino a quando ha proposto l’intervento del gruppo Gavio». Ma «ad oggi non è stato effettuato nessun ulteriore versamento, e ciò mi ha costretto a ricominciare nuovamente ad effettuare pressanti azioni di sollecito».
Di Caterina prende atto che «Binasco ha di fatto tentato di chiamarsi fuori», e peraltro «avrebbe potuto tranquillamente non entrarci»: segno che il pagamento a Di Caterina non è qualcosa che riguardi Binasco, ma qualcosa che a Binasco viene chiesto di adempiere per conto altrui. «Vi sollecito a rispettare gli impegni assunti nelle modalità», avverte Di Caterina nella lettera a Penati e Binasco, perché gli «accordi raggiunti» sono «vitali anche per il proseguimento delle attività lavorative». Perciò «vi invito a trovare conclusioni ai contenziosi che ci vedono interessati, per me di enorme gravità».
«Rispettate gli impegni. Tutto ha un limite»
Sono calunnie o millanterie o un’altra di quelle «parziali, contraddittorie e unilaterali ricostruzioni» che ieri in una dichiarazione Penati lamenta e ai quali si ribadisce «totalmente estraneo»? Fatto sta che nel novembre 2008 la trattativa immobiliare produce il suo scopo: liquidare a Di Caterina 2 milioni dietro lo schermo della caparra di Binasco e con il contributo tecnico di un professionista di Binasco ritenuto vicino a Penati, Renato Sarno (tra gli otto perquisiti mercoledì). E alla fine del 2010, puntuale, arriva la rinuncia di Binasco a esercitare l’opzione d’acquisto: Di Caterina si tiene l’immobile e incamera i 2 milioni di euro di caparra.
Nella sua lettera del 2008, Di Caterina si congedava da Penati e Binasco non proprio leggiadramente, «diffidandovi dall’assumere atteggiamenti minacciosi e offensivi» e «ricordandovi che non si può giocare cinicamente con la vita degli altri. Tutto ha un limite».
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Penati & Bersani, ecco la Tangentopoli ipocrita dei leader Democratici
di Giuliano Ferrara
Filippo Penati è Pierluigi Bersani, e Pierluigi Bersani è Filippo Penati. Non parlo della eventuale responsabilità penale che, ad eccezione del caso di Silvio Berlusconi e dei teoremi sul nonpoteva-non-sapere che lo riguardano, è notoriamente personale. Non parlo nemmeno della strettissima associazione politica tra i due, visto che Penati è stato l’artefice organizzativo e politico dell’elezione di Bersani a capo del Pd, il testimonial del ritorno al Nord di quel partito che dal Nord era stato marginalizzato e virtualmente espulso (Bersani si è fatto ritrarre in maniche di camicia, dietro il simbolismo fattivo del suo messaggio c’è il «fare» di Penati, un virtuoso superdirigente, e dei vari Penati minori del Pd).
Parlo invece della responsabilità politica e dei caratteri profondi di una leadership. Bersani è un solido amministratore pubblico emiliano, di tradizione comunista. Penati è un solido amministratore pubblico lombardo, di tradizione comunista. Sono entrambi miglioristi o riformisti, credono che la funzione sociale e politica della loro gente e del loro partito sia quella di governare la società, e pensano che per governare una grande nazione occidentale sia necessario sporcarsi le mani con i problemi da risolvere, in collaborazione conflittuale e al tempo stesso in cooperazione con sindacati e imprenditori. Bisogna realizzare opere pubbliche navigando tra gli appalti, gestire in modo efficiente e competitivo aziende pubbliche assumendosi la responsabilità di nomine e scelte strategiche e pratiche, lasciare il più che sia possibile spazio ai privati e alla concorrenza, difendere il welfare ma rispettare le regole del mercato, organizzare forza e consenso nelle istituzioni per stabilire e raggiungere traguardi difficili ma irrinunciabili dando forma a quell’ordine delle cose, a quell’energia della politica, a quella capacità di promuovere idee, persone, competenze, gruppi che si chiama governo di una società complessa.
Non basta tenere alta la guardia della legalità e dell’etica, come invocano teppisti e tribuni del circo mediatico- giudiziario. Quelli a sinistra, come a destra, che hanno le mani pulite, non hanno le mani. Sono buoni a nulla che sanno solo inveire contro la «casta», il sostituto povero dell’antica lotta di classe, seguono il trend più becero dell’antipolitica qualunquista, e invece di rimproverare ai partiti di non saper più fare il loro mestiere, di non saper dare una rotta all’ Italia, li dannano se e quando il loro mestiere lo facciano. Per un buco in una montagna, in Val di Susa la società civile fa la guerra civile.
Per evitare riforme che spazzino via lo spreco dell’acqua pubblica, i guru della decrescita inventano la filosofia dei beni comuni e referendareggiano a vanvera ma con discreto successo demagogico. Per evitare di pagare il doppio dei nostri concorrenti l’energia, che è la ragione non ultima del mancato sviluppo della nostra economia e dunque dell’incapacità di dare un futuro all’esercito dei precari e di risolvere la questione del debito pubblico, non hanno soluzione alcuna: ma vorrebbero l’Eni e l’Enel e Finmeccanica in galera per principio, sono antinuclearisti fondamentalisti alla Greenpeace, pensano che il petrolio sia una cosa sporca mentre premono l’acceleratore del Suv sulla strada del week end o, peggio, fanno passerella in bicicletta alla ricerca di un uovo fresco a chilometro zero. Una differenza importante fra Penati e Bersani c’è.
Penati ha provato a difendere l’autonomia della politica, e infatti è diventato il centro di delazioni più o meno credibili, di indagini a chilometro zero, molto milanesi come stile, sui suoi trascorsi di amministratore a Sesto San Giovanni, un comune dell’hinterland milanese che da tempo immemorabile è la cassa cooperativa del movimento operaio cosiddetto.
Penati è candidato al linciaggio. Bersani invece pensa di evitare guai, e cerca di lasciarsi soltanto sfiorare dalle inchieste giudiziarie e dai sospetti anticastali, alimentati dal caso Pronzato, il suo consulente ministeriale e di partito che prendeva tangenti volanti, assumendo pose e posizioni che incoraggiano i mozzorecchi a dilagare con i loro cappi, con le loro parole d’ordine, con le loro antipolitiche giustizialiste. A sinistra è un film già visto, una festa dell’ipocrisia insieme insipida e indigeribile, al contrario delle famose salamelle alla Festa dell’Unità.
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