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(WSI) – «Deflazione: che non accada qui!». Si intitola così un vecchio discorso di Ben Bernanke sul rischio di una spirale ribassista dei prezzi. Correva l’anno 2002. Ironia della sorte, Bernanke, che nel frattempo è passato da governatore «semplice» a presidente della Fed, combatte oggi contro lo stesso spauracchio. Con una sola differenza: allora si trattava di un esercizio teorico da emerito professore, adesso è in ballo lo stato di salute dell’economia Usa. Sì, perché la deflazione è già realtà. E nei numeri si intravedono le prime pericolose conferme.
Gli indizi lasciati sul campo dallo stesso Bernanke sono comunque molto espliciti: la Federal Reserve sta seguendo con precisione le indicazioni che il suo presidente in pectore, proprio nel novembre 2002, descriveva nel paragrafo «Curare la deflazione». In soli sei mesi si è dunque passati dal rischio di perdere il controllo dell’inflazione al problema opposto: lo sboom delle materie prime, unitamente al rallentamento dell’economia globale, sta provocando un avvitamento verso il basso dei prezzi, dalle tinte ancora fosche ma inconfondibili. Muta lo scenario, mutano le strategie di investimento. L’ipotesi deflazione mette fuori gioco azioni e commodity, mentre accresce l’appeal di reddito fisso e cash.
Caso per caso, è tuttavia opportuno fare dei distinguo. I gestori obbligazionari preferiscono titoli governativi ai corporate. Dal canto loro, i forex strategist puntano su dollaro e yen, mentre il destino dell’euro è controverso. E se proprio si cerca l’equity, meglio rimanere lontani da ciclici e small cap. I dubbi tuttavia non mancano. Per alcuni la deflazione sarà solo un fenomeno temporaneo destinato a svanire già dal 2010. Per altri si affermerà invece come un fenomeno strutturale.
MINACCIA GIAPPONESE. Del resto, il virus della deflazione è il più temuto dai mercati finanziari. Per osservare i sintomi basta tornare al «lost decade», al decennio perduto del Giappone: crescita piatta, disoccupazione e stress finanziario. Il tutto propiziato da una calo generalizzato e duraturo dei prezzi al consumo: dal 1995 al 2005 il tasso d’inflazione si è mantenuto costantemente al di sotto dello zero. Corriamo dunque lo stesso rischio?
A detta della Cassandra più autorevole del momento, quel Nouriel Roubini che finora non ne ha sbagliata una, la risposta è sì. «Vista la severa recessione globale – scrive Roubini dalle colonne del suo Rge Monitor – la deflazione sarà presto realtà negli Stati Uniti, in Giappone, in Svizzera, nel Regno Unito e anche nell’Eurozona». Le ragioni? «Il crollo della domanda globale – precisa Roubini – ridurrà il prezzo di beni e servizi nonché quello delle materie prime, mentre la crescente disoccupazione allevierà le pressioni sul fronte salariale».
Risultato: un calo generale dei prezzi, appunto.
In questo scenario, tutte le asset class sono destinate a soffrire, eccezion fatta per cash e reddito fisso. Il perché è presto detto: in deflazione, i tassi reali d’interesse tendono a crescere. Molto semplicemente: se i prezzi scendono a un tasso del 2% annuo, possedere un bond che rende il 4% significa portare a casa un rendimento netto del 6 per cento. Questo vale per le scadenze più brevi e ancora di più per quelle più lunghe. A questo punto è però importante non fare di tutta l’erba un fascio. Di fronte a tassi reali crescenti, i debitori vedono aggravarsi nel tempo l’onere del loro debito e così aumenta il rischio di default. Un rischio che oggi, viste le limitate possibilità di rifinanziamento, è quanto mai concreto. Sarebbe allora un azzardo farsi ingolosire dai tassi reali crescenti, soprattutto parlando di corporate bond.
CIAMBELLA DI SALVATAGGIO. «Sui titoli governativi – spiega Emanuele Ravano, condirettore per l’Europa delle strategie Pimco – crediamo che la scadenza più interessante sia quella a cinque anni. Questo perché le banche centrali non solo dovranno abbassare, e di molto, i tassi di riferimento. Dovranno anche impegnarsi pubblicamente a non alzarli per due o tre anni». A questo proposito, il citato discorso del 2002 di Bernanke non lascia adito a dubbi: «Una volta che i tassi di riferimento sono già stati azzerati, come si può fare per stimolare un calo dei tassi a lungo termine (necessario per riattivare la domanda aggregata, ndr)? Una strada è quella di impegnarsi pubblicamente e in modo credibile a mantenere i tassi a zero per un prefissato periodo di tempo».
Come dimostrano le parole di Ravano, il mercato sembra aver già interiorizzato questa strategia. Negli Usa i future scommettono su Fed Funds allo 0,50% entro fine anno, livello dal quale non dovrebbero muoversi fino alla seconda metà del 2009. Nuovi e duraturi tagli arriveranno anche in Europa: gli economisti si attendono che la Bce riduca il costo del denaro dall’attuale 3,25% all’1,75% e lo mantenga invariato per almeno sei mesi; la Bank of England dovrebbe invece agire più rapidamente, con i tassi che sono attesi all’1,50% – al momento sono al 3% – già dai primi mesi del 2009, per poi rimanere invariati per buona parte del 2009 stesso.
«D’altra parte – aggiunge Ravano – ad andare sulle scadenze più lunghe si corre il rischio d’incappare nel problema opposto: l’inflazione. Questo perché, se i governi avranno successo nel rilanciare l’economia, i prezzi torneranno a crescere». Insomma, scadenze lunghe, ma pronti a cambiare cavallo. Per Nicola Pegoraro, responsabile investimenti di Carige Am, le scadenze più lunghe presentano anche un’altra incognita: «È inevitabile che i grandi programmi di spesa pubblica varati per rilanciare l’economia metteranno pressione sui titoli a lungo termine. Soprattutto negli Usa, dove per forza di cose i volumi di emissione saranno notevolissimi». Sciolto il nodo dell’orizzonte temporale, rimane da vedere se un governativo vale l’altro o se, invece, è meglio ragionarci sopra.
«In Eurozona – precisa Ravano – la deflazione rischia di aumentare le divergenze nella performance economica dei vari Paesi membri. Non è un segreto quanto la situazione debitoria e il grado di produttività varino da caso a caso. Credo dunque che verranno penalizzati i Paesi meno competitivi, come l’Italia, a scapito di quelli meglio posizionati, come la Germania. Lo spread tra i governativi in euro è quindi destinato a crescere ancora. Riguardo invece ai Treasury, il recente rally dimostra quanto gli operatori abbiano preso atto dell’impegno della Fed contro la deflazione. Inoltre, una delle possibili misure che devono ancora essere adottate riguarda proprio l’acquisto da parte del Tesoro stesso di Treasury, così da appiattire ulteriormente la curva dei tassi».
Pegoraro crede invece che la situazione in Eurozona offra spunti diversi: «Ci sono Paesi che sono stati estremamente penalizzati. L’Italia è tra questi. Basta guardare allo spread sul decennale: il Btp rende il 4,45%, mentre il Bund il 3,25 per cento. Credo sia esagerato, infatti non vedo un rischio di esplosione del caso italiano. Non si dimentichi che rimaniamo tra i Paesi meno toccati dalla crisi, perlomeno nel comparto finanziario».
C’è invece accordo sul rischio implicito nei corporate bond. «Compriamo solo quelli su cui è stata apposta una garanzia pubblica esplicita (banche a grandi istituzioni finanziarie) o implicita (General Electric)», spiega Ravano: «Per il resto, meglio non tentare di speculare sulla recessione». «Siamo di fronte a un tipo di rischio imprevedibile e difficilmente diversificabile», aggiunge Pegoraro: «Un piccolo portafoglio fai-da-te rischia di avere effetti disastrosi. È allora preferibile rimanere sul mercato con l’investimento in fondi obbligazionari».
CASH E VALUTE. Chi non vuole prendere rischi sul mercato obbligazionario può sempre rimanere liquido. Anche in questo caso, a maggior ragione al cospetto di uno scenario deflazionistico, occorre procedere con senno. «La Bce sarà costretta a tagliare ancora i tassi», spiega Roberto Mialich, Forex strategist di Unicredit: «L’euro potrà dunque soffrire ancora. In particolare, credo che difficilmente l’euro-dollaro potrà evitare un nuovo calo. Lo vedo intorno a quota 1,15. Sugli altri cambi lo scenario è più complicato. Lo yen mi sembra privilegiato per il continuo smantellamento di posizioni di carry trade. Il rapporto con la sterlina potrebbe invece rimanere stabile, se non addirittura apprezzarsi, perché i problemi dell’economia britannica rischiano di essere più seri di quelli in Europa. Le monete ruggenti degli esportatori di materie prime – Australia, Nuova Zelanda, Canada, Norvegia – dovrebbero infine perdere nuovo terrreno perché le quotazioni delle commodity sono stimate in continuo calo».
Si tratta comunque di uno scenario che prende forma sull’ipotesi di una deflazione moderata e confinata al solo 2009. Qualora invece si rivelasse strutturale, verrebbe tutto ribaltato. «In un caso estremo – continua Mialich – la Bce dovrà abbassare i tassi al massimo: floor al 2%, ma non escludo sorprese, e tenerli lì per molto tempo. A quel punto l’euro rischierebbe di essere percepito come funding currency su movimenti di carry trade e perderebbe terreno anche sulle monete degli esportatori di materie prime».
A parte bond e cash, se deflazione sarà, tutte le altre asset class ne faranno le spese. «In deflazione – interviene Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest – anno bene solo le società che continuano a fare ricavi piuttosto che utili. Sono i ricavi la variabile che ci può indicare se l’azienda terrà meglio». È comunque scettica sull’ipotesi di fondo Manuela Maccia, strategist di Bnp Paribas: «I prezzi di alcune asset class caleranno, ma non credo che questo calo sarà generale e duraturo. Detto questo, chi voglia esporsi all’attuale volatilità del mercato azionario, lo faccia con un approccio value, privilegiando titoli anti-ciclici e large cap».
Che dire infine delle commodity? «Le quotazioni dell’oro – risponde Michael Palatiello di Wings Partners – potranno contare sulla sua natura di bene rifugio. Anche le soft commodity, soprattutto quelle legate alla produzione di biocarburanti, come i semi di soia, stanno tenendo. Il petrolio invece potrebbe scendere ancora. Ma prevedo che entro un paio d’anni possa tornare sui 120 dollari al barile. Anche perché, oltre a una possibile ripresa della domanda, la capacità produttiva soffrirà del blocco completo dei progetti di esplorazione al quale stiamo assistendo».
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