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GRAZIE D’ ALEMA

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(WSI) –
Caro direttore e cari lettori, c’è una lucida ironia della storia, per la quale il governo Prodi cade e rassegna il mandato per un voto negato dal Senato a Massimo D’Alema. Ed è la riprova che ciò che gli uomini ritengono di sventare con la propria astuzia, spesso ha un senso profondo che invece aggira e raggira i loro artifici.

Tutti avevano pensato che era uno dei capolavori di Prodi, infatti, esser riuscito senza spendersi in prima persona a evitare che Massimo D’Alema salisse al Quirinale, dove sarebbe stato troppo temibile per l’agenda istituzionale e politica che il candidato premier anelava a controllare, e al contempo averlo comunque compreso nella lista del governo, impedendo che restasse a mani libere sulla scena politica, e per di più affidandogli il portafoglio degli Affari esteri, in modo da tenerlo lontano dai fronti più scottanti, quelli della politica interna, economica e istituzionale. E invece ecco la vendetta.

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Sono i voti di Turigliatto e Rossi per la sinistra radicale e dissenziente negati a D’Alema, sono i voti di Cossiga, Andreotti e Pininfarina mancati a D’Alema, a portare dritto dritto Prodi alle dimissioni. Il copione del ’98, quando Prodi cadde per la reazione di D’Alema e Marini al tentativo del premier di stringere un accordo con Rifondazione sulla testa dei riformisti, ha uno sviluppo imprevisto ma pieno di significato: questa volta Prodi non si era impegnato in prima persona per riacchiappare Pdci, Rifondazione e Verdi dopo i voti mancati a Parisi al Senato, e si era affidato proprio a D’Alema per ritessere la tela con la sinistra antagonista.

Prodi, con ogni probabilità, avrebbe concesso anche di più: ma si dimette per lo stesso problema di allora, a ben vedere, e cioè per il fatto che le posizioni massimaliste e quelle riformiste non riescono proprio a trovare una maniera plausibile e numericamente sostenibile per conciliare posizioni che sono e restano molto diverse. Da questo punto di vista, il D’Alema che si è visto ieri è per molti versi la sintesi della contraddizione esplosa. La sua relazione d’apertura al dibattito, per molti versi, era impeccabile, e rispecchiava abilmente quella convinzione di aver ormai la soluzione in tasca che il giorno prima aveva ispirato al ministro l’arcinota dichiarazione «senza maggioranza al Senato, si va tutti a casa».

Un discorso pacato e levigato, la cui premessa è stata la richiamata continuità con gli indirizzi di fondo della politica estera italiana: l’Europa, l’Onu, l’Alleanza atlantica. Una premessa apprezzatissima dai senatori a vita, e in particolare da Giulio Andreotti, che alla discontinuità crede pochissimo. Tutte le successive cartelle erano zuccherini per la sinistra antagonista. Ma senza offrire alcuna pietanza, tipo giudizi impegnativi sulla riconsiderazione della base americana a Vicenza o sui tempi dell’exit strategy dall’Afghanistan.

Insomma, D’Alema nell’intervento iniziale si era predisposto a incassare i voti dei senatori a vita, senza concedere troppa trippa all’ala radicale. È nella replica, che al ministro è slittata la frizione. Sull’Afghanistan e sulla base di Vicenza, sono venuti giudizi che a Rossi e Turigliatto hanno fatto prudere le mani, convincendoli che no, non si sarebbero uniti alla dissenziente Franca Rame che si alzava in aula per dire che non era d’accordo ma la crisi di governo a Berlusconi lei non la regalava. E al contempo, ancora più grave, la formula usata da D’Alema per negare il gradimento del governo alla mozione Calderoli, che apprezzava proprio la continuità nelle linee di politica estera tanto cara ad Andreotti, è stata assai diversa da quell’elogio della continuità con cui aveva egli stesso iniziato il dibattito: chi parla di continuità mente, ha detto papale papale D’Alema, consapevole che su Vicenza e Kabul si era allargato un po’ troppo. E a quel punto ha perso il consenso di Andreotti, e di Pininfarina che ad Andreotti si è adeguato.

Il dibattito è aperto, se D’Alema abbia mosso questo passo in apparenza incauto sol per aver dato troppo spago alla propria lingua e al proprio carattere proverbialmente orgoglioso, o se invece non abbia consapevolmente scelto di sfidare apertamente i dissenzienti, poiché il metodo della mediazione sfinente alla Prodi proprio non corrisponde al suo Dna. Personalmente sposo la seconda tesi: a differenza di Paolo Mieli, che ieri ha subito chiesto che nel nuovo governo Prodi di transizione non rientri il ministro degli Esteri, al quale muove una guerra personale e risoluta da anni. Non scherziamo, per chi della politica ha un’idea alta D’Alema e Prodi non potranno mai stare alla stessa altezza.

E, per quello che mi riguarda, boutade per boutade un nuovo esecutivo dell’Unione sarebbe preferibile mille volte con D’Alema dentro e Prodi fuori, perché per quanto non si sia d’accordo con D’Alema su cento se non su mille cose, almeno di lui si capisce perché e che cosa pensi, a differenza della gelatina galleggiante in cui Prodi eccelle. Con tutto il rispetto, sull’Afghanistan come su Vicenza D’Alema ha retto assai meglio della media dei dirigenti dell’Unione, e lo ha fatto mentre palazzo Chigi ha sempre tenacemente evitato di esporsi con parole e giudizi impegnativi.

Certo, il destino vuole che il D’Alema ministro degli Esteri ripeta a proprio danno lo scacco che lo portò a mettere il mandato di premier in forse, se il centrosinistra avesse perso le regionali del 2000. E oggi il copione si ripete. Ma non è la stessa cosa. Il D’Alema di allora, da palazzo Chigi tentava una scorciatoia decisionista a ciò che l’informe irreattività del centrosinistra slabbrato gli aveva impedito da segretario dei Ds, porre un nuovo fondamento all’irriformabilità del postcomunismo italiano su basi diverse da quelle del puro antiberlusconismo.

Un D’Alema in chiave personalistica che è esattamente la cifra per la quale è odiato da metà della sinistra, mentre l’altra metà non riuscirà mai a non sentire nei suoi confronti il brivido alla schiena dell’unico vero leader carismatico che faccia battere i cuori, a differenza dell’onesto lavoratore Fassino e del trasvolatore mediatico di ogni ideale, l’inafferrabile Veltroni. Il D’Alema di ieri era il politico della sinistra che intendeva più giocare la sua personale faccia all’Onu per confermare la nostra presenza in Afghanistan, non per negarla. Il D’Alema in continuità e non in rottura coi bombardamenti ordinati da premier sulla Serbia. Tutta roba che a Prodi importa poco, se non un fico secco, in cambio della continuità di governo.

Sarà poco, senza dubbio, ma quel po’ di decisioni concrete di operante solidarietà occidentale nella lotta al terrorismo da parte della sinistra italiana le dobbiamo più a D’Alema, che non a Prodi o a chiunque altro dell’Unione. Sarebbe un grave errore, dimenticarlo solo per l’avversione che anche in buona parte del centrodestra suscita l’ultimo dei togliattiani e il migliore dei postcomunisti, il sostenitore della “razza padana” e anzi, come ha scritto in un bellissimo libro appena uscito un suo ex collaboratore come Andrea Romano, «un mesto incrocio tra don Chisciotte e don Abbondio, tra la velleità di chi proclama cambiamenti che non è in grado di portare avanti, e il cinismo di chi lascia le cose come stanno».

È grazie a D’Alema, che il giochino dell’incompatibilità tra dissenzienti e politiche occidentali trova compiuta espressione nel voto negato dal Senato. Da oggi con le consultazioni al Quirinale mille ridde di ipotesi diverse entrano in gioco. Ma credere di fare i conti senza D’Alema è un grave errore. Il suo giudizio sprezzante sulle menzogne americane relative alle armi di distruzione di massa in Iraq lo rende inviso a molti, nel centrodestra. Ma è davvero quanto dice oggi più di metà del Congresso americano. Non abbiamo avuto un Blair in Italia. Ma l’approssimazione meno lontana dal fabianesimo occidentalista britannico di cui disponiamo, non viene certo da Prodi o dall’aleatorio Veltroni. Sta tutto nella tenacia irriducibile dell’ex segretario della Fgci. Anche se la rivoluzione liberale che lanciò come parola d’ordine quando era segretario, a metà anni ’90, era più un omaggio della necessità alla virtù, che un nuovo abito mentale dopo aver dismesso quello precedente, ormai non più indossabile. Grazie dunque D’Alema, che ci hai dato per coerenza e irriducibile fiducia in te stesso, la crisi di Prodi premier che di quelle virtù non è dotato.

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