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(WSI) – Per quasi quattro anni ha distribuito ricchezza. O almeno l’illusione di poter diventare più ricchi. Ma per Google, l’azienda d’oro fondata nel ’98 da Larry Page e Sergey Brin, il 2008 non promette nulla di buono per i festeggiamenti del decennale. Dalla chiusura del 31 dicembre 2007 a ieri il titolo quotato al Nasdaq ha perso il 35%. Dai massimi del 6 novembre il conto in rosso peggiora passando a -40%: dai 741,7 dollari ai 446 che il titolo quotava ieri a mercati d’oltreoceano ancora aperti. In una manciata di settimane, la società di Mountain View ha bruciato circa 120 miliardi di capitalizzazione.
Certo, per chi aveva creduto fin dall’inizio alla storia dei due ragazzi anti-cravatta, pronti a sfidare anche l’establishment delle grandi banche d’affari di Wall Street quotandosi direttamente sul web, l’investimento è stato fonte di plusvalenze e gioie. Lo sbarco in borsa era avvenuto a 85 dollari. E quindi per un teorico azionista che avesse partecipato all’Ipo e avesse poi ceduto il pacchetto di azioni proprio sui massimi il guadagno sarebbe stato di circa l’800%.
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Abbastanza per concedersi qualche vacanza ai tropici. E si potrebbe anche aggiungere che non esiste un caso Google visto che tutti i tecnologici, compresa la Apple, stanno perdendo percentuali simili. L’unica che sta guadagnando è Yahoo!, grazie all’effetto Opa Microsoft che ha fatto tornare il titolo sotto i riflettori come dimostra anche l’attenzione della Time Warner comparsa ieri come cavaliere bianco. Ma dietro la discesa di Google non c’è solo la crisi dei mercati, la sirena della recessione e la paura per i consumi. Gli studi sempre più raffinati sulla pubblicità online, considerata uno dei business più in crescita per il prossimo futuro e fulcro di successi come quelli di Facebook e Asmallworld, stanno iniziando a dare risultati diversi da quelli sperati.
Il modello sembrava inattaccabile: l’azienda paga lo spot online solo se il consumatore clicca effettivamente sul banner o sulla pubblicità in pagina. Una sorta di polizza assicurativa sulla capacità di raggiungere il consumatore. È come se dietro i cartelloni stradali ci fossero sistemi capaci di contare quanti passanti hanno alzato la testa per leggere. Peccato che secondo una ricerca di comScore riportata da Businessweek il 6% dei naviganti, quindi una stretta minoranza, è all’origine di oltre il 50% dei click sugli annunci. E, come se non bastasse, molti di loro risultano percepire uno stipendio basso e dunque non sono grandi consumatori. Insomma, lo spot online raggiunge il navigatore, ma non lo porta nel negozio.
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