Inizia oggi la collaborazione tra Wall Street Italia e il giornale diretto da Furio Colombo
Cari militanti no global, vi scrivo per riflettere insieme su un apparente paradosso: come mai persone come me, che da sempre considerano un dovere battersi contro la povertà e le ingiustizie, possono sentirsi tanto estranee rispetto al movimento anti-globalizzazione da ritenere che il mondo – per essere più vivibile – abbia bisogno non già di frenare la mondializzazione, come voi auspicate, bensì di accelerarla e di estenderla?
Voi avete ragione quando denunciate l’accentuarsi nella nostra epoca delle diseguaglianze sociali ed economiche, ma altrettanto innegabili mi sembrano i progressi che in termini macroeconomici l’ondata contemporanea di globalizzazione ha portato al mondo intero, producendo ricchezza e strappando alla povertà intere regioni del pianeta. Permangono, è vero, grandi isole di esclusione. Ma qualcuno davvero pensa che producendo meno ricchezza possa diventare più facile combattere la povertà?
Io leggo con attenzione fin dai giorni di Seattle i testi, le dichiarazioni e le arringhe che va producendo il vostro movimento e mi meraviglio che non abbiate mai citato – fra i sintomi più preoccupanti dell’ingiustizia che caratterizza il gap Nord-Sud – un fenomeno che a me sembra scandalosamente esemplare: il fatto che mentre centinaia di milioni di esseri umani non dispongono per sopravvivere che di un dollaro al giorno (sempre che riescano a procurarselo), ogni bovino che nasce tra la Finlandia e la Sicilia ha diritto a un dollaro quotidiano di sovvenzione da parte dell’Unione europea. Esiste forse argomento più convincente per denunciare l’ipocrisia e la miopia con cui i dirigenti europei (così come quelli statunitensi, peraltro) affrontano la globalizzazione, predicandone lo sviluppo ma ostacolandone con il loro protezionismo non solo agricolo la dinamica naturale?
C’é da chiedersi se i processi di mondializzazione trovino un ostacolo più grave nella vostra «resistenza» o nelle barriere protezionistiche con cui i paesi del Nord continuano a strangolare interi settori-chiave dell’economia del Sud, ritardandone l’emancipazione.
Nato e cresciuto nel Nord del mondo, il movimento no-global dice di rappresentare tutti i diseredati del Sud e afferma di difenderne gli interessi. Benissimo.
Ma che ci fanno allora alla testa dei vostri cortei personaggi come il francese José Bové, paladino del protezionismo agro-alimentare francese ed europeo? E che ci fanno quei cattolici, seguaci della «teologia della liberazione», e tuttavia fedeli a una Chiesa che (come l’Islam) benedice l’esplosione demografica e di fronte alla pandemia dell’Aids continua a vietare l’uso del preservativo e ogni forma di educazione sessuale? E che ci fanno gli «integralisti dell’ambiente» che vorrebbero fermare la ricerca scientifica sugli organismi geneticamente modificati e impedire ai paesi minacciati dalle carestie di scegliere liberamente fra il rischio OGM e la morte per fame? E che ci fanno gli esponenti della sinistra post-comunista che invocano aiuti straordinari nei confronti dei paesi più poveri, nonché la remissione unilaterale del debito, ma poi non battono ciglio quando i leader di questi paesi trascinano i rispettivi popoli in costose e devastatrici guerre di aggressione come avviene in Rwanda, Uganda, Etiopia ed Eritrea?
Se io vivessi e soffrissi nel Sud del mondo non potrei che diffidare di simili amici e avvocati.
Il movimento no-global esige dal Nord un maggiore e immediato «traferimento di risorse» verso il Sud, ma non sembra accorgersi di una realtà che ipoteca il futuro degli aiuti: il sostanziale fallimento di quattro decenni di «politiche dello sviluppo», incapaci fin qui di strappare un solo paese alla morsa del sottosviluppo. Come mai?
Il movimento no-global esige che la cosiddetta comunità internazionale metta fine allo «scandalo della povertà», ma non sembra dare grande attenzione al fatto che oggi la forma più efficace di lotta alla povertà viene condotta – sull’onda della globalizzazione – dai circa 150 milioni di emigranti provenienti da una trentina paesi del Sud i quali, senza aspettare le ricette e i programmi della Banca Mondiale, sono andati a cercare lavoro in una trentina di paesi industrializzati. Forse bisognerebbe ragionare sul fatto che le loro rimesse dirette alle famiglie, molto più efficaci di qualsiasi progetto anti-povertà elaborato dalle Nazioni Unite, sono diventate per molti paesi (dalla Tunisia all’Ecuador) il principale cespite di valuta pregiata.
Il punto dolente é che nemmeno le rimesse degli emigrati, destinate ad aumentare nei prossimi decenni, riescono a dinamizzare le economie che le ricevono, quando nei paesi beneficiari non esiste un livello minimo di democrazia e non vige lo Stato di diritto.
Ne ho avuto la prova durante un recente e prolungato soggiorno in Ecuador, un paese che ha «esportato» il 15% della sua popolazione e dove le rimesse degli emigranti superano gli introiti provenienti dal petrolio, dalle banane, dalla pesca, ma dove si trasformano spesso in «capitale morto» (come dice l’economista peruviano De Soto) per l’inaffidabilità del sistema creditizio locale, per l’alto tasso di corruzione che si riscontra, per la poca fiducia che gli investitori nazionali e internazionali mostrano nei confronti di questo paese.
Io sono certa che la globalizzazione potrà moltiplicare i suoi effetti benefici (e non soltanto in termini macroeconomici) se e quando riuscirà a sconfiggere entrambi i suoi maggiori nemici: a Nord la riluttanza di troppi dirigenti politici ad abbattere le barriere contro la libera circolazione delle merci e delle persone; a Sud la riluttanza di troppi leader a concedere ai propri cittadini le libertà politiche ed economiche fondamentali che (come alcuni sostengono e come conferma uno studio recente delle Nazioni Unite sul mancato sviluppo dei paesi arabi) costituiscono una condizione necessaria per lo sviluppo. Per questo e non per altro molti paesi del Sud si sono trasformati in «pozzi senza fondo», dove gli aiuti internazionali scompaiono senza lasciare traccia.
A me piacerebbe dar vita a un movimento alternativo al vostro, che chiamerei «Globalizzazione? Sì grazie», che riuscisse a includere fra le priorità della mondializzazione – quindi delle relazioni internazionali al Nord come al Sud – la promozione su scala globale di regole e principi della democrazia (il meno peggiore dei sistemi di governo conosciuti, come diceva Churchill) e dello stato di diritto.
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