Società

Gli uragani che minacciano il Mediterraneo

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news
Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Repubblica – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Roma – Li chiamano medicanes. Sono l’ultima grana che il cambiamento climatico ci ha regalato: uragani nel Mediterraneo, mediterranean hurricanes, vortici di 200 chilometri di diametro al posto di trombe d’aria larghe 500 metri. Li hanno scoperti per caso, studiando il mare dai satelliti, e ora la protezione civile è costretta a rivedere la mappa della sicurezza.

«Dalla letteratura scientifica risulta che il Mediterraneo è attraversato solo da trombe d’aria, fenomeni ben diversi dagli uragani», spiega Antonio Navarra, il direttore del Centro euro-mediterraneo per i cambiamenti climatici chiamato alla conferenza del clima di Doha per lavorare a una strategia di difesa dagli eventi estremi. «Adesso sono saltati fuori in maniera imprevista questi nuovi fenomeni di cui conosciamo poco e che ci preoccupano molto».

Anche perché, rileggendo le cronache dei disastri degli ultimi anni, si è scoperto che una parte delle sciagure piovute sull’Italia è legata ai medicanes. Ad esempio nell’ottobre del 1996 ben due di questi uragani mutanti hanno colpito le regioni meridionali, insistendo in particolare sulle Eolie, sulla Sicilia e sulla Calabria, uccidendo sei persone a Crotone. Nel 2006 un altro ha picchiato duro sul Salento, con venti che hanno raggiunto i 145 chilometri orari. E, visto che la forza degli uragani è proporzionale all’energia che traggono dal calore del mare, con il riscaldamento climatico il problema diventerà via via più serio.

In Italia il nuovo piano per la sicurezza idrogeologica propone interventi urgenti in un decimo del paese, l’area in cui i danni rischiano di diventare ingovernabili. Ad esempio la costa tra Ravenna e Monfalcone potrebbe tornare allo stato di palude: per impedirlo occorrerà rafforzare il sistema delle idrovore che già oggi mantiene all’asciutto una parte del paese: senza questa macchina di difesa idraulica sarebbero a rischio allagamento città come Mantova, aeroporti come Fiumicino e Venezia, autostrade come la Firenze mare, ferrovie come la Roma-Napoli.

«Gli studi su questi uragani mediterranei vanno intensificati», continua Navarra. «Ma è chiaro che il rischio per il paese aumenta e bisogna fare di tutto per ridurlo. Il piano di sicurezza da 40 miliardi di euro in 15 anni serve anche a questo. Dobbiamo pensare che aumenterà la minaccia di frane, di alluvioni e inondazione delle coste basse. Ridurre i gas serra per prevenire è indispensabile. Ma lo è anche ridurre il numero delle vittime».

Il problema comunque non è solo italiano: il pericolo dell’intensificarsi di uragani e tempeste riguarda gran parte del pianeta. La delegazione americana alla conferenza sul clima ricorda che a New York si stanno studiando interventi radicali per cambiare le strutture di difesa della metropolitana: la città si prepara a fronteggiare un futuro in cui il mare potrà alzarsi all’improvviso sotto la spinta degli uragani. E in alcune aree della Gran Bretagna la violenza delle tempeste ha suggerito di progettare grandi serbatoi sotto le colline che minacciano di franare seppellendo interi paesi: in questo modo le acque possono trovare una via di sfogo e venire poi rilasciate lentamente.

«Si faranno anche canalizzazioni per permettere il deflusso delle flash flood, le alluvioni lampo. E bisognerà difendersi dal mare», racconta Barry Gromett, l’esperto del Met Office, l’istituto inglese di ricerca sulla meteorologia. «A Londra abbiamo già costruito una barriera mobile sull’estuario del Tamigi per proteggere la città dalla risalita del mare durante le tempeste più violente. Doveva bastare sino a fine secolo: ora c’è chi vuole costruire una seconda linea difensiva».

Copyright © La Repubblica. All rights reserved