ROMA – «È un’indecenza, vi autorizzo io a dirlo ai giornalisti, ho controllato io stesso gli aerei, c’erano altri voli di linea e poteva anche prendere un volo di Stato, un volo che è autorizzato a fare un’altra rotta, gliel’ho detto io stesso, avrebbe anche risparmiato del tempo. Lui mi ha risposto che non poteva».
Mentre Silvio Berlusconi parla, si sfoga, con i suoi deputati, Giulio Tremonti è già in volo per Washington, deve partecipare alle riunioni del Fondo monetario internazionale. Ma non è solo una distanza geografica quella che separa il premier dal suo ministro, la distanza è umana e politica ed è ad un livello mai raggiunto prima.
Marco Milanese alla Camera è stato appena salvato dalla maggioranza, ma a Montecitorio, e soprattutto intorno al Cavaliere, non si parla d’altro: l’assenza di Tremonti. Non è andato al Consiglio dei ministri e nemmeno ha votato sulla richiesta di arresto del suo ex braccio destro. Berlusconi autorizza il Pdl a emettere una velina durissima: «Un atto immorale».
Di solito Berlusconi parla ma poi smentisce; attacca Tremonti in privato, ma poi getta acqua sul fuoco. Questa volta la dinamica appare diversa: non c’è nulla di ufficiale, ma la cornice sembra quella di un’operazione cercata e voluta. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un tomo fresco di tipografia che il Tesoro ha fatto recapitare a tutti i ministri, sul tavolo ovale nella sala del consiglio, di prima mattina. Sono i numeri del Def, il documento che aggiorna le cifre e le previsioni della nostra economia, ma il governo era all’oscuro di tutto ed è chiamato ad approvarlo senza alcuna illustrazione. Per Berlusconi il vaso è colmo.
Prendono la parola prima Brunetta, poi Galan, poi Romani. In pochi istanti la riunione si trasforma in una sorta di processo collettivo ai danni del ministro dell’Economia. Per chi assiste alla scena «è quasi una sommossa». Persino Calderoli non difende Tremonti, ed è tutto dire. Ma la novità non sono i ministri contro quello che per anni è stato tollerato come il Superministro, la novità sono le parole durissime ed esplicite del capo del governo.
«Esiste un problema serio, Tremonti va in giro in Europa a dire che la credibilità dell’Italia è peggiorata per colpa mia, per le modifiche che ho inserito alla manovra. È una cosa inaccettabile. Un ministro che non segue le indicazioni del suo partito, che non dà le dimissioni dopo tutto quello che è successo, crea una situazione imbarazzante. Io la manovra l’ho solo migliorata e se mi avesse dato ascolto sin dall’inizio sarebbe stato tutto diverso».
Gianni Letta prova forse per un attimo a riportare la calma, ma ormai l’argine è rotto. La «piena» di una maggioranza che nelle ultime ore avrebbe arruolato anche umori leghisti contro il Tesoro è ormai inarrestabile: si trasferisce prima a Montecitorio per il voto su Milanese, poi a palazzo Grazioli per il vertice di maggioranza. I comunicati del vertice, le parole del premier, tutto converge verso quello che appare come un unico obiettivo: depotenziare al massimo grado, per l’imminente futuro, il ruolo di Giulio Tremonti.
C’è anche chi sostiene, nel governo, che si tratta di un azzardo, che a Tremonti potrebbero saltare i nervi, ma forse è proprio questo il desiderio del Cavaliere: «Sapete che non ho il potere di fare dimettere nessuno, purtroppo», dice ancora ai suoi ministri e mentre aggiunge questa frase lascia capire che fosse per lui le dimissioni le avrebbe chieste chissà da quanto tempo, perché condivide le critiche degli altri colleghi: il metodo inaccettabile, il lavoro di questi giorni sul decreto per lo sviluppo, che a tanti sembra gestito dal Tesoro senza la dovuta convinzione.
Per più di un ministro la distanza con il premier si è allargata sino a livelli incolmabili sulla nomina del prossimo governatore di Bankitalia: «Tremonti è sull’Aventino perché Berlusconi ha scelto Saccomanni e non Grilli». Ma è una spiegazione riduttiva. Nel pomeriggio a palazzo Grazioli il premier parla di vendita del patrimonio dello Stato, dice che questo governo deve portare «il Paese al riparo dalla crisi con provvedimenti eccezionali».
Dietro ogni parola, ogni progetto, per quanto al momento vago, sembra esserci un imputato, ovvero Tremonti. Che non appare godere più della fiducia del suo presidente. E per di più Berlusconi ha appena rinsaldato il rapporto con Bossi; ha convinto la Lega a votare contro l’arresto di «un napoletano», come i leghisti chiamavano ieri, senza troppa eleganza, l’ex braccio destro di Tremonti; e invece «lui non viene nemmeno a votare, roba da pazzi», continua il presidente del Consiglio, prima di chiudere la riunione del governo.
A fine giornata la cifra politica di tanta durezza nei confronti del ministro dell’Economia viene riassunta così nello staff del premier: «Non siamo in grado di dire, lo sa soltanto il presidente, se in questo momento possiamo fare a meno di Tremonti, ma di sicuro si sta rafforzando nel presidente una consapevolezza: con Tremonti, con questo grado di collaborazione, il governo non riuscirà a dare quel colpo d’ala che i mercati ci chiedono, ormai il ministro viene avvertito come il primo problema di questa coalizione». Sulle agenzie di stampa filtrano altre considerazioni attribuite al premier: la voglia di riportare la regia della politica economica a Palazzo Chigi, la voglia di comunicare a tutti che Tremonti «non comanda più».
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La cabina di regia anti-Tremonti
Letta media: se cade lui, cade il governo
di Francesco Verderami
Prima di partire per gli Stati Uniti, Tremonti ha tolto tutte le carte dalla scrivania del ministero. Berlusconi vorrebbe che svuotasse anche i cassetti e togliesse il disturbo dal governo. Il titolare dell’Economia è però convinto di restare, non solo perché non si dimetterà ma anche perché «non hanno strumenti per cacciarmi». In realtà, il Cavaliere aveva pensato addirittura a una mozione di sfiducia individuale pur di chiudere il rapporto, e c’è voluto del tempo prima che Gianni Letta lo riportasse alla ragione.
«Silvio, non hai capito che se cade Giulio, cade anche il governo?». «Gianni, non hai capito che quello vuol far precipitare tutto». «Ho capito, ma un conto è se fossi tu a provocare lo scontro, altra cosa è se lui si dimettesse». Così è nata l’idea del direttorio a Palazzo Chigi, una task force economica sotto l’egida di Letta da contrapporre al titolare di via XX settembre. Più che spacchettarlo – come voleva Maroni – si pensa almeno a impacchettare Tremonti, a svuotarne i poteri, costringendolo alla collegialità, alla mediazione su ogni provvedimento, fino a metterlo in minoranza nelle riunioni del Consiglio dei ministri. «E vedremo quanto a lungo resisterà».
L’operazione tuttavia non è facile, e in più è Berlusconi ad avere fretta, perché deve dare un segnale al Paese sul versante economico prima di muovere guerra alla magistratura sul fronte giudiziario. Perciò il premier era deciso a sostituire subito Tremonti con Grilli, riproponendo il copione di sei anni fa: anche allora infatti era stato un direttore generale del Tesoro (Siniscalco) a subentrare al «genio». L’idea del cambio in corsa resta, ma per il momento il Cavaliere ha dovuto ripiegare su una struttura, il direttorio, tutta da costruire e che evoca la famosa «cabina di regia» chiesta nel 2002 da Fini proprio per contenere lo strapotere del superministro: fu quello il primo passo verso il «dimissionamento» di Tremonti.
Rispetto ad allora però Tremonti non ci pensa nemmeno a fare un passo indietro, e per quanto indebolito politicamente, si dice pronto ad affidare a Berlusconi la regia: «Si assuma lui la responsabilità di stabilire i tagli ai ministeri, i tagli alle pensioni. Faccia lui, insieme a Letta». Più che un segno di disponibilità sembra una sfida, a difesa delle proprie idee che – a suo modo di vedere – erano vincenti. L’uomo del «rigore» respinge infatti la tesi di aver «sbagliato quattro manovre», come gli contestano i suoi accusatori nel governo e nella maggioranza: «La verità è che fino a quando ho gestito io la situazione, lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi era molto basso. Poi…».
E qui comincia l’arringa difensiva di Tremonti, una storia che parte dalla sconfitta alle Amministrative, «quando Berlusconi non accettò l’idea che il risultato fosse stato causato dal bunga-bunga e non dalla linea di politica economica». In quel periodo il Cavaliere provò a rilanciarsi parlando di riforma del Fisco e di un possibile taglio delle tasse, «e da quel momento i mercati iniziarono a punirci». Fino ai giorni drammatici di agosto, quando il governo si trovò costretto alla manovra d’emergenza e il premier – secondo Tremonti – «provò a fare di testa sua».
In effetti fu del Cavaliere l’idea di chiamare il presidente della Bce per avere idee alternative a quelle del superministro, «e se chiamò Trichet, lo fece perché con lui poteva parlare in francese», sottolinea con una punta d’agro: «Ma la famosa lettera l’hanno scritta a Roma, mica a Francoforte. Figurarsi se lì gli veniva in mente l’abolizione delle Province, per esempio…». È a Draghi che allude Tremonti, all’«agente tedesco che fa gli interessi di Berlino», come una volta ha definito il governatore uscente di Bankitalia: «E quando Berlusconi ricevette la lettera si mise ad urlare dalla rabbia, perché aveva capito di esser stato ingannato».
Insomma, l’imputato scarica ogni responsabilità sul suo accusatore: sarebbe stato il Cavaliere a «organizzarsi da solo la trappola in cui poi è caduto». Così Tremonti si discolpa, e aspetta di conoscere le mosse del nuovo direttorio, vuole capire quale sarà il piano per la crescita. Perché di soldi non ce ne sono, «a meno che non si intenda contravvenire al patto del pareggio di bilancio per il 2013», né si può procedere con le dismissioni: «Lo Stato non può svendere gioielli di famiglia come l’Eni o l’Enel ora che le azioni in Borsa sono così basse». Resta l’altra strada, quella di operare «a costo zero, procedendo con le liberalizzazioni. Ma il Pdl lo accetterebbe? Perché ogni volta che ci ho provato, gli interessi corporativi hanno trovato udienza da Berlusconi…». Se c’è una cosa che manda in bestia i dirigenti del Pdl è l’aura di infallibilità che si è creata attorno a Tremonti. «Non passa riunione in cui non dica di aver previsto tutto», si lamentava tempo fa Verdini durante una riunione di partito: «E quanto ce l’ha tirata con la storia del suo libro, in cui sosteneva di aver previsto la crisi mondiale. Io l’ho letto quel libro. C’è scritto che la crisi sarebbe partita dalla Cina. Invece è scoppiata negli Stati Uniti…». Ecco qual è il livello delle relazioni. E non c’è dubbio che la situazione sia davvero imbarazzante.
Berlusconi e Tremonti continuano a non parlarsi, ma se le mandano a dire, come fossero acerrimi avversari. «Mai però ho parlato male di lui all’estero», sottolinea il superministro: «Non fosse altro perché avrei indebolito la mia posizione negoziale». Così dicendo sembrerebbe aprirsi uno spiraglio, ma è solo un abbaglio: «Io non ho mai parlato male di Berlusconi. Altra cosa è che di lui parlino male all’estero…».
L’incompatibilità è caratteriale oltre che politica. A tenerli insieme è solo il reciproco (e contrapposto) interesse alla sopravvivenza. Eppoi c’è Bossi. È lui che può decidere le sorti della contesa. Il Senatur sta facendo molto per il Cavaliere, «andremo avanti insieme, Silvio, fino in fondo», ma resta amico di Tremonti, «a lui gli voglio bene». È l’ultimo rimasto però nella Lega, insieme a Calderoli: oltre Maroni, anche nel «cerchio magico» monta l’ostilità verso il superministro, convinto però che sia tutta tattica e che «Umberto tra qualche mese saluterà Berlusconi e porterà tutti al voto l’anno prossimo».
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