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(WSI) – Le bolle speculative sono più facili da gonfiare che da mantenere in vita. La bolla immobiliare negli Stati Uniti sta cominciando a sgonfiarsi e i rischi dell’economia USA e globale sono più grandi che nel 2000 alla vigilia del crollo dei mercati azionari e sono più grandi a causa degli squilibri che si sono determinati in parte a seguito della bolla immobiliare e del suo scoppio. Vi sono tutte le condizioni perché il consumatore americano indebitato fino gli occhi tiri i remi in barca, causando anche un crollo dell’import statunitense e per questa via una recessione globale.
Infatti, non bisogna dimenticare che il motore della crescita economica è il credito. Il credito totale interno degli Stati Uniti è passato dal 150% del Pil nel 1969 al 240% nel 1990 e al 340% di oggi. Quando il credito si espande in questo modo esso alimenta il consumo, gli investimenti, l’occupazione e fa crescere i prezzi delle attività reali e finanziarie come le azioni. Ma ad un certo momento un eccesso di credito causa il surriscaldamento congiunturale e provoca una bolla dei prezzi sui mercati. Fino a che nuovo credito si aggiunge a quello in essere, tutti sono in grado di prendere a prestito per ripagare il capitale e, a volte, anche gli interessi.
Ad un certo punto quest’uso smodato del credito si interrompe perché le famiglie e le imprese realizzano di non essere più in grado di rimborsare. E’ questo il brusco passaggio dall’inflazione creditizia alla deflazione creditizia. E’ questa la situazione che stiamo sperimentando oggi. E’ una crisi creditizia internazionale che dispone di una forza deflazionistica spaventosa. In base ai miei calcoli, per contrastarla i governi dei principali Paesi dovrebbero spendere almeno 1000 miliardi e forse quasi 2000 miliardi di dollari. Ma chi finanzierà queste spese? Non certo il contribuente che paga già tasse molto salate, ne’ il risparmiatore, privato o istituzionale, che ha già troppi crediti nel portafoglio. Forse lo potrebbero fare le banche centrali, ma questo sarebbe un rimedio ancora peggiore del male perché si passerebbe dalla deflazione all’inflazione galoppante. Queste sono le prospettive dello scoppio della bolla creditizia e non sono prospettive incoraggianti.
In questo contesto è tornato a far parlare di sé il dollaro. Ma in che cosa consiste esattamente il problema del dollaro? Esso risiede nel fatto che il Paese che emette la moneta di riserva – quella cioè accolta nei bilanci delle banche centrali di tutto il mondo per denominare i crediti sull’estero (le riserve, appunto) che ha ottenuto negli anni 1950 questo status per la sua moneta in grazia della sua capacità di grande esportatore, da ormai tre decenni registra grandi deficit nella sua bilancia dei pagamenti correnti. Questi deficit inoltre si sono accentuati negli ultimi dieci anni, al punto che le esportazioni degli Stati Uniti sono ormai pari a meno del 60% delle importazioni, rendendo nei fatti impossibile un ritorno all’equilibrio della bilancia dei pagamenti americana di fronte ad un deprezzamento del cambio, fino ad un qualunque livello che non sia palesemente assurdo.
Le autorità monetarie dei Paesi, specie asiatici, che in questi anni hanno acquistato dollari per circa tremila miliardi contribuendo a sostenere il valore della moneta americana, ora sono propensi a dire basta: il troppo è troppo. Anche perché la banca centrale americana pare intenzionata ad affrontare la crisi finanziaria dei mutui subprime, degli hedge funds e del private equity abbassando i tassi di interesse sul dollaro e quindi rendendo ancora meno attraente la detenzione di moneta americana. Gli obiettivi di politica economica interna (che consistono attualmente nell’attenuare la morsa del credito o credit crunch) sono entrati in rotta di collisione con gli obiettivi di stabilità del cambio del dollaro. Questo contrasto viene ancora una volta risolto rifuggendo dalle responsabilità degli Stati Uniti verso il resto del mondo e a vantaggio delle loro esigenze domestiche.
L’Amministrazione in tutti questi anni, pur facendo dichiarazioni in favore di un dollaro forte – ma come diceva Talleyrand la parola serve spesso per nascondere il pensiero – si è affidata interamente al deprezzamento del dollaro (che dal 2002 rispetto ad un basket delle principali monete ha perso il 25% del suo valore), sperando che esso fosse progressivo ed ordinato, per riequilibrare un non riequilibrabile deficit dei conti con l’estero. Ha preferito usare i pannicelli caldi invece di adottare misurare più adeguate per salvaguardare lo status del dollaro come moneta di riserva.
Non ha fatto nulla per frenare il deficit federale che ha generato un debito dell’Amministrazione stimato attualmente in oltre 9000 miliardi di dollari (i cui titoli pubblici sono per quasi il 50% nelle mani degli stranieri). Le spese pubbliche sono state aumentate, mentre entravano in vigore i tagli delle tasse. Si è lasciato che si manifestasse un’inflazione creditizia di enormi proporzioni, come dimostrato dall’uso smodato del credito nei confronti delle famiglie, delle imprese e dei grandi e medi investitori (hedge funds, private equity, etc.). L’Amministrazione non ha favorito la formazione di risparmio interno al fine di ridurre la necessità di massicci afflussi di capitali (4 miliardi di dollari al giorno) dall’estero. Né si è curata di aumentare la competitività degli Stati Uniti lasciando, ad esempio, che sulle imprese gravasse il crescente fardello della spesa sanitaria e pensionistica.
Ha vissuto alla giornata, sempre sperando in un impossibile ribilanciamento dei conti con l’estero, nonostante i crescenti segni di nervosismo da parte delle autorità monetarie degli altri Paesi, oggi più che mai infastidite dallo sgradevole compito di continuare ad acquistare dollari, senza che vi fosse un programma finalizzato a porre fine a questa anomalia. E così l’America si è messa in trappola. Essa è scattata nel momento in cui la Federal Reserve ha cominciato ad abbassare i tassi di interesse per rispondere al credit crunch oggi presente sui mercati finanziari.
Si è così creata una situazione nella quale le cose sono destinate ad andare male, sia che si scelga bianco, sia che si scelga nero: una lose lose situation. Infatti, se la Fed non abbassa ancora i tassi di interesse, i mercati finanziari subiranno un brusco passaggio dall’inflazione alla deflazione creditizia. Se abbassa i tassi prepara la strada ad una crisi valutaria, ad un precipitoso crollo del dollaro al quale seguirà una crisi dei mercati finanziari, anche perché verrà messa in pericolo la crescita economica globale. Una crisi valutaria avrà effetti negativi sul commercio internazionale, sugli investimenti e sui tassi si interesse ancora più potenti di un credit crunch.
E’ probabile, comunque sia, che ancora una volta l’incapacità degli Stati Uniti di comprendere il resto del mondo farà fare ai pubblici poteri americani la scelta più sbagliata.
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