Società

GLI ITALIANI
NON PARLANO PIU’
DI POLITICA

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La pratica politica, ci ha spiegato ieri l’ultimo Rapporto Censis, salvo che nella sua proiezione mediatica «è sempre più confinata in uno spazio marginale».

Risultato: sono sempre meno gli italiani che parlano di politica e che partecipano all’attività dei partiti. Peggio, che credono nei partiti dai quali si sentono sempre meno rappresentati.

La dissoluzione del sistema dei partiti e della politica non è mai un fatto positivo: c’è il rischio di una deriva qualunquista, di una affermazione di disvalori berlusconiani tipo quello della «comunicazione televisiva come fonte di miraggi».

Ma la disaffezione ha anche motivazioni concrete: nasce dalla percezione che la politica e i partiti si disinteressano dei problemi reali delle persone.

Come è accaduto ieri al senato: si discuteva di Fiat. Sul banco del governo il ministro Marzano, sugli scranni appena 30 senatori (25 del centro sinistra e 5 della maggioranza) poco più del 9% dell’assemblea.

Il Censis (lunga vita a De Rita e ai suoi che coprono, unici, un vuoto analitico, anche se spesso dissentiamo dalle loro analisi) ricorre spesso alle frasi a effetto e alle metafore.

Ieri riprendendo una metafora, credo del Rapporto del ’98, afferma che la struttura socioeconomica costituita da «pochi grandi alberi, milioni di fili d’erba, qualche cespuglio» va cambiando radicalmente.

In senso decisamente negativo i «grandi alberi», cioè le grandi imprese, la cui «decapitazione in alto sta avendo effetti pericolosi» anche «sull’immagine internazionale del paese».

La Fiat è l’albero più grande, un baobab secolare, cresciuto grazie anche all’appoggio al fascismo, al concime delle commesse belliche, al protezionismo, alla spesa pubblica e alle sovvenzioni statali.

Ma soprattutto grazie a uno sfruttamento iperintensivo che «succhiava perfino il cervello». Oggi, ma non solo da oggi, l’albero Fiat viene pesantemente tagliato, solo che la potatura dei rami e delle foglie non è un fatto botanico, ma umano: riguarda la vita, le speranza, il futuro di migliaia di persone che vengono tagliate e bruciate non certo perché poco produttive. Allora, perché?

Il Censis ci viene di nuovo in soccorso. Il Rapporto ci spiega che «una nube di declino è preconizzata dalla debolezza delle strutture di accumulazione di sistema».

Che, viene spiegato più avanti, significa che «siamo prigionieri di un deficit di innovazione logistica», ma soprattutto di una «accumulazione di capitale umano e di innovazione, a troppo basso livello per le ambizioni, anche di puro consolidamento, dello sviluppo fin qui costruito».

Per essere chiari: non esiste una crisi strutturale dell’auto, le oscillazioni congiunturali sono la norma in un sistema capitalistico nel quale la domanda oscilla periodicamente sulla base dell’andamento generale dell’economia.

Esiste, invece, un problema Fiat, una impresa che negli anni «grassi» ha realizzato (grazie allo sfruttamento e ai vantaggi valutari) utili che hanno raggiunto il 10% del fatturato.

Ma questi utili anziché essere reinvestiti nella ricerca e nell’innovazione (nessuno osava sperare in maggiori salari) sono stati distribuiti a una famiglia tanto numerosa quanto famelica.

Oppure reinvestiti per acquistare munizioni per allargare l’impero di famiglia. Tanto, come nella prima guerra mondiale, c’era carne umana in abbondanza da mandare al macello.

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