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GIUSTO RIDURRE LE TASSE, MA PER I CETI MEDI

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(WSI) – Una volta tanto, il «liberal impenitente» Paul Samuelson – così si definisce sorridendo – è d’accordo con Silvio Berlusconi. «Il vostro premier fa bene a voler ridurre le tasse», dichiara il primo premio Nobel americano per l’economia, a 89 anni la memoria storica e la voce della coscienza Usa. L’Italia, dice, ha bisogno di incentivi ai consumi e alla produzione, così come ha bisogno di liberalizzare il mercato del lavoro e di contenere le spese dello Stato. Ma il nume del Massachusetts Institute of Technology aggiunge che il rilancio economico italiano dipenderà dal tipo di sgravi fiscali che il governo attuerà, oltre che da fattori esterni come l’andamento dell’economia americana.

Che tagli delle tasse suggerisce?

«Quelli a beneficio dei ceti medio e medio basso: sono loro che alimentano i consumi, non il ceto alto. I tagli alla Bush, a vantaggio del 10% più ricco come me, non servono altrettanto. Specialmente se sono affiancati dall’aumento della spesa pubblica, come ha fatto appunto il presidente George Bush. Da noi i tagli e le spese – soprattutto quelle militari – stanno causando un deficit di bilancio record».

Lei pensa che l’Italia possa evitare questa trappola?

«Prendiamo Germania e Francia. Sforano regolarmente i parametri di Maastricht, secondo cui il deficit non dovrebbe superare il 3% del prodotto interno lordo. Penso che, rispetto a loro, abbiate un discreto margine di manovra, se non eccederete negli sgravi fiscali. E penso anche che il vostro premier sia più propenso a rispettare certi equilibri che non Bush».

In che senso?

«Nel senso che Berlusconi deve sentire Bruxelles e la Banca centrale europea, dialogare con Antonio Fazio, che a mio parere è tra i migliori banchieri dell’Ue, con i sindacati e così via. Uno dei difetti delle cosiddette democrazie di mercato è che minacciano di esasperare, non di alleviare, le disuguaglianze sociali. L’Italia darebbe un buon esempio se adottasse una riforma controcorrente».

Ci sconsiglia quindi il modello americano?

«Sicuro. Noi andiamo incontro a problemi gravissimi a causa delle eccessive riduzioni delle tasse: 1.900 miliardi di dollari, quasi un quinto del Prodotto interno lordo. Oltre al disavanzo di bilancio, abbiamo un enorme disavanzo dei conti correnti. Il sistema pensionistico e quello che è rimasto del sistema sanitario rischieranno di fallire se non cambieremo strada, cioè se non aumenteremo nuovamente le tasse. Ma questo finirebbe per frenare la nostra economia».

Fino a che punto la ripresa italiana dipenderebbe da fattori esterni?

«Temo in maniera abbastanza rilevante, perché al momento si tratta di fattori negativi: il rincaro del petrolio, il ristagno economico europeo, la debolezza del dollaro. Non solo: noi non siamo più la locomotiva di un tempo, a cui voi potevate agganciarvi. Non prevedo una recessione nel prossimo biennio ma, nel migliore dei casi, la crescita americana non dovrebbe superare il 2,5-3% annuo. Più dell’Unione europea, presumo, ma non certamente un boom».

Qual è a suo parere l’incognita maggiore?

«A lungo termine la debolezza del dollaro. Attualmente è utile alla nostra amministrazione per stimolare l’economia, ma lo sarà solo finché Paesi come la Cina e il Giappone continueranno a riciclare i loro surplus nei nostri titoli di Stato, nelle nostre obbligazioni e nelle nostre azioni. Il giorno che smettessero, ci sarebbe una fuga dal dollaro, che crollerebbe, come avvenne anni fa con la vostra lira».

Secondo lei è un pericolo concreto?

«Se Bush venisse rieletto potrebbe accadere entro un quinquennio, con conseguenze molto serie per l’economia globale. I mercati monetari non amano le incertezze, e la fiducia nel dollaro è in calo. Se la Cina, che per me oggi è la nuova locomotiva economica mondiale, rivalutasse lo yuan ci darebbe un po’ di respiro. Il motivo per cui non lo fa è che molte banche cinesi sono in crisi».

E a breve termine, quale pericolo vede?

«Il petrolio, di cui noi e i cinesi siamo i massimi fruitori. Non vorrei che la situazione in Iraq peggiorasse e il Medio Oriente si destabilizzasse, perché allora il petrolio scarseggerebbe e potrebbe salire a 60 dollari al barile, forse di più. A quel livello, ne risentiremmo tutti, anche voi che sinora, grazie all’apprezzamento dell’euro, avete resistito relativamente bene».

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