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Giulio Tremonti smentisce il complotto anti-Innominabile

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ROMA – Non c’è rovescio politico o ribaltone economico in cui non venga chiamato in causa e additato come regista occulto di un complotto, ovviamente contro Berlusconi. E visto che vive ormai da tempo la condizione di indiziato, con ironia Tremonti anche stavolta smonta gli indizi a suo carico. Perché per uno che viene da un vertice a Pechino e sta per andare a un altro a Washington «non c’è tempo per organizzare un complotto».

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È una battuta di cui il titolare dell’Economia si è servito in questi giorni per smontare la tesi di una nuova fase difficile nelle relazioni con il premier, sebbene il rapporto tra i due si regga da sempre su equilibri fragili. Ma accreditare l’idea che abbia tenuto il Cavaliere all’oscuro del cambio ai vertici di Generali non regge, se è vero che Gianni Letta da un mese sarebbe stato a conoscenza delle difficoltà crescenti di Geronzi. Di conseguenza non regge l’ipotesi di un’imminente macchinazione politica che la svolta di Trieste si porterebbe appresso.

Certo, l’indiziato resta tale agli occhi dei suoi avversari, che sono poi i suoi stessi colleghi di governo e di partito. Tuttavia ci sarà un motivo se Tremonti sfugge al gioco dei palazzi (quelli romani), e resta un passo indietro sostenendo di avere «difficoltà a capire il momento politico, complicato da decifrare». Potrà destare sospetto anche la più semplice delle considerazioni, e cioè che non vede una crisi dell’esecutivo all’orizzonte: «E chi la provocherebbe, se non c’è nemmeno l’opposizione?». Di una cosa è convinto, il premier «vuole durare». E se il Cavaliere non ha intenzione di passar la mano, a fronte della debolezza dello schieramento avverso, non c’è chi potrebbe intestarsi un clamoroso colpo di mano.

Tutto perciò resta com’è, nonostante il caos che regna nel Pdl, e che sembra da un momento all’altro far implodere tutto. «Fibrillazioni del nulla», così le derubrica Tremonti, convinto che se c’è Berlusconi non c’è il partito, e se non ci fosse più Berlusconi non ci sarebbe più il partito: «Non c’è eredità da dividersi», lo ripete ormai da anni. E ora inizia a credere che nemmeno con una squadra si potrà gestire il dopo, quando sarà.

Ecco il motivo per cui annota con algido distacco i conversari dei ministri suoi colleghi di partito, che in nome della realpolitik il Cavaliere sarebbe pronto a sconfessare se ce ne fosse la necessità. Pare l’abbia già fatto, confidando a Tremonti la propria irritazione. Il titolare di via XX settembre ne ha preso atto, dire che ci abbia creduto è esagerato. Anche perché sa che non si è trattato di una sola cena, e che da tempo gli incontri conviviali vanno avanti: all’ultimo, per esempio, c’era la Carfagna (assente la volta precedente) e non Galan (presente la settimana scorsa).

L’antitremontismo che ha innervato quelle discussioni non lo fa scomporre, almeno non ha fatto mostra di turbarsi quando ha raccontato che «quanto dicono di me non mi tocca. Io rispondo solo delle cose che faccio. E quando faccio qualcosa, prima mi preparo, poi espongo le mie idee e le difendo pubblicamente». Un messaggio rivolto a chi – in vista della manovra economica – attende di capire se «Giulio sarà dalla nostra parte», o se bisognerà difendersi da nuovi tagli ai bilanci dei dicasteri, che «impediscono qualsiasi azione politica».

La seconda opzione è la più probabile. Ecco cosa provoca «alcune fibrillazioni», secondo Verdini. L’ammissione del coordinatore del Pdl testimonia le tensioni interne, che difficilmente possono essere ridotte a «una questione di famiglia». E comunque, se voleranno i piatti, «Giulio» ha già pronto lo scudo per proteggersi: la firma di Berlusconi agli accordi sottoscritti in Europa. Traduzione: se qualcuno ha da porre obiezioni, si rivolga al premier.

E il Cavaliere non sembra per ora in grado di alzare la voce. Nelle ultime settimane ha provato a farlo, rilanciando sulla riforma fiscale. Ma il titolare dell’Economia avvisa che «la riforma non può significare la riduzione delle tasse. Non esiste, e Berlusconi lo sa». Né ha fondamento la storia che il premier volesse il progetto sulla propria scrivania prima delle Amministrative. A parte il fatto che le commissioni di studio istituite al Tesoro termineranno i loro lavori solo a fine maggio, la revisione del sistema tributario – secondo Tremonti – «non può essere piegata ai giochi elettorali. Anche perché, se la sbagli, poi le elezioni le perdi. Pure questo Berlusconi sa». Il punto è che il Cavaliere non sa nemmeno quando la legge delega per la riforma sarà presentata in Consiglio dei ministri. «Ci vuole tempo», dice Tremonti: «Negli anni Sessanta per cambiare il fisco ci misero sei anni». Sei anni? E Berlusconi?

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