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Giovani italiani senza lavoro: tagliamo loro le tasse

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Roma – La difficoltà di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro è un problema comune a molti Paesi, ma in Italia è più acuto che altrove. Stiamo rischiando di compromettere permanentemente il futuro di un’intera generazione. Non è troppo tardi per intervenire, ma non si può perdere altro tempo.

Per capire come affrontare il problema bisogna individuarne la natura. In Italia, nella fascia d’età fra i 16 e i 24 anni, solo un ragazzo su quattro lavora: in Germania, negli Stati Uniti e nella media dei Paesi europei, uno su due. I ragazzi italiani lavorano meno di altri per due ragioni: sono meno quelli che cercano lavoro (cioè la partecipazione alla forza lavoro è più bassa che in altri Paesi), e tra quelli che lo cercano in meno lo trovano (cioè il tasso di disoccupazione è più alto). La partecipazione alla forza lavoro in questa fascia di età è il 30 per cento in Italia, contro il 51 per cento in Germania, 41 in Francia, 56 negli Stati Uniti. La disoccupazione giovanile è oltre il 25 per cento in Italia a fronte del 19 per cento nell’area Euro, 18 per cento negli Stati Uniti, 10 in Germania.

Questo divario impressionante non dipende dal fatto che i giovani italiani studiano di più, e quindi non lavorano perché stanno investendo nel loro futuro. Nella fascia d’età 25-34 anni, gli italiani che hanno una laurea sono 18 su cento, meno della metà che in Francia, Svezia e Stati Uniti.

Naturalmente c’è molta differenza tra Nord e Sud. La disoccupazione giovanile al Centro-Nord è vicina alla media europea, mentre è molto più alta al Sud. Ma non è solo Sud. Anche al Nord la partecipazione dei giovani alla forza lavoro è più bassa rispetto al resto d’Europa.

Un secondo aspetto importante emerge confrontando il tasso di disoccupazione dei giovani (fra i 15 e i 24 anni) con quello degli adulti (25-64). La peculiarità dell’Italia non è solo l’elevata disoccupazione giovanile, ma il divario fra giovani e adulti. Il rapporto tra il livello di disoccupazione dei giovani e quello degli adulti è 4 in Italia (cioè per ogni disoccupato adulto ci sono 4 disoccupati giovani) contro il 2,4 dell’area Euro, 1,4 in Germania. Questa differenza si riscontra ovunque in Italia, sia al Nord sia al Sud. Anzi, in qualche regione del Nord è più alta che al Sud. Ad esempio, il rapporto fra disoccupati giovani e adulti è 4,8 in Emilia-Romagna e 3,2 in Sardegna. Questo rapporto è una misura di quanto il mercato del lavoro protegga chi un lavoro ce l’ha, cioè gli adulti. Più il rapporto è elevato, più i giovani sono esclusi. In altre parole, il mercato del lavoro in Italia è molto più chiuso ai giovani che in altri Paesi europei e lo è forse di più al Nord che al Sud. È un’osservazione importante perché ci dice che il mancato lavoro dei giovani non è solo un problema collegato specificamente al Mezzogiorno: dipende da regole e istituzioni nazionali, che escludono i giovani sia a Napoli che a Torino.

Non solo i giovani in Italia lavorano poco, ma sempre più sono impiegati con contratti temporanei che raramente sfociano in un contratto a tempo indeterminato. In Veneto ad esempio (dati pubblicati sul sito www.lavoce.info, vedi anche l’articolo di Ugo Trivellato sul medesimo sito) la percentuale di assunzioni (al di sotto dei 40 anni) con contratti a tempo indeterminato è scesa, negli ultimi 12 anni, dal 35 al 15 per cento; le assunzioni a tempo determinato sono salite dal 40 al 60 per cento. Sono quasi scomparsi anche gli inserimenti tramite contratti di apprendistato, la cui quota (sempre in Veneto) è scesa dal 25 al 10 per cento. Altrove al Nord è ancora più bassa. Non conosciamo dati per il Sud. Evidentemente le imprese ritengono altre forme di «assunzione» più convenienti dell’apprendistato.

Il fatto è che le aziende sono comprensibilmente restie a trasformare i giovani assunti temporaneamente in «illicenziabili». Preferiscono i contratti a tempo determinato perché consentono loro di aggirare le rigidità dei rapporti a tempo indeterminato. Le conseguenze di questo mercato del lavoro «duale» sono innumerevoli. I giovani vivono con i genitori più a lungo, si sposano più tardi, fanno meno figli, non accumulano contributi per la loro pensione. Non solo, ma molti studi dimostrano che lunghi periodi di disoccupazione da giovani hanno conseguenze permanenti sulla carriera lavorativa perché rendono le persone meno impiegabili. In Italia l’attesa media per trovare il primo lavoro è 33 mesi contro 5 negli Stati Uniti.

Il Testo Unico sull’apprendistato, approvato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri fa un passo avanti, consentendo l’apprendistato agli studenti delle scuole superiori. Il testo prevede che questa forma di inserimento nel mondo del lavoro sia utilizzabile per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione di ragazzi che abbiano compiuto quindici anni. In questo caso la durata del contratto non può estendersi oltre il termine del ciclo di studi, con un limite di tre anni.

Ma il Testo Unico non fa nulla per ridurre il dualismo del nostro mercato del lavoro. Infatti prevede anche che «se, al termine del periodo di apprendistato, nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato», cioè l’apprendista diventa da un giorno all’altro illicenziabile. Poche imprese rinunceranno all’opzione di esercitare unilateralmente il recesso.

Le idee su come riformare il nostro mercato del lavoro per facilitare l’inserimento dei giovani non mancano, ma qualunque proposta si scontra con un ostacolo politico apparentemente insormontabile: l’elettore medio italiano, cioè colui (o colei) che determinano chi vince le elezioni, è sempre più anziano. L’età media degli italiani è la terza più alta al mondo, ed è quella che sta crescendo più rapidamente. Se le riforme che favoriscono i giovani richiedono qualche sacrificio agli adulti, è difficile che siano sostenute da partiti e sindacati la cui fortuna dipende dal voto e dall’influenza degli anziani.

Ciò ovviamente non significa che i genitori italiani non siano interessati al futuro dei propri figli. Ma si è creato un equilibrio per cui i genitori si occupano del benessere dei figli attraverso la famiglia, mentre come società adottiamo politiche che rendono difficile ai giovani rendersi economicamente indipendenti. La famiglia è diventata il meccanismo di protezione dei giovani. Il lavoro sicuro (prima) e la pensione (dopo) del padre assicurano un minimo di supporto per figli precari. La loro sopravvivenza è assicurata, la crescita, il dinamismo ed il futuro dei giovani stessi no.

Cosa fare dunque? Alcune cose si possono fare subito e darebbero risultati immediati. Prima di tutto, e di questo si è molto parlato, bisogna riformare radicalmente il mercato del lavoro abolendo la separazione fra contratti a tempo determinato e indeterminato, e sostituendoli con un contratto unico con protezioni e garanzie che crescono con l’anzianità sul posto di lavoro.

Tutte le proposte, di questo governo e dei precedenti, hanno finora riguardato solo i contratti a tempo determinato: modificandoli marginalmente, e introducendo nuove modalità di precariato. Nessuno ha avuto il coraggio di smantellare il dualismo e passare al contratto unico. La resistenza degli anziani si potrebbe superare non toccando i vecchi contratti e applicando il contratto unico solo ai nuovi assunti. Se lo si fosse fatto quindici anni fa, ai tempi del Pacchetto Treu, durante il primo governo Prodi, la transizione si sarebbe già completata. Nessun governo né di destra, né di sinistra ha avuto la lungimiranza di farlo.

Un’altra idea è modulare le aliquote delle imposte sul reddito in funzione dell’età, abbassando le tasse per i più giovani. La perdita di gettito si dovrebbe recuperare con riduzioni di spesa. Ciò aumenterebbe il reddito disponibile dei giovani e li renderebbe più indipendenti e più impiegabili perché al lordo delle imposte costerebbero meno alle imprese. L’idea di modulare le aliquote fiscali in funzione dell’età è stata studiata negli Stati Uniti da una commissione presieduta dal recente premio Nobel Peter Diamond. A ciò si potrebbero aggiungere sgravi fiscali per le imprese che offrono lavori ai giovani, ma solo dopo aver riformato il sistema dei contratti come discusso sopra. Altrimenti le imprese continuerebbero a offrire ai giovani contratti temporanei.

Ma si dovrebbe pensare anche a qualche provvedimento più radicale che sblocchi la gerontocrazia che domina l’Italia. Per esempio, perché non abbassare a 16 o 17 anni l’età minima per votare? O porre dei limiti di età (ad esempio 72 anni) ai politici, ai burocrati, ai membri dei consigli di amministrazione delle società quotate? In questi consigli si vorrebbero introdurre le quote rosa: perché non pensare anche ai giovani (uomini e donne), oltre che alle donne di ogni età?

Il problema dei giovani in Italia non è solo economico. Stiamo creando una generazione sfiduciata, disillusa che non s’impegna perché non trova sbocchi e non vede per sé un futuro. Perdiamo molti bravi giovani che se ne vanno all’estero. Non solo i cosiddetti «cervelli», ma anche giovani che non trovando un normalissimo lavoro in Italia lo cercano, e lo trovano, altrove. Una generazione di scoraggiati non si riproduce né economicamente, né demograficamente e crea un pericoloso circolo vizioso. Queste spirali si possono arrestare, ma solo se si interviene presto. Se accelerano diventa impossibile fermarle.

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