*Alessandro Gilioli cura il blog Piovono Rane su L’espresso, da cui e’ tratto l’articolo. Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Apprendo da Manteblog e e-conomy.it e-conomy.it della questione che vede opposti Report e il suo ex collaboratore Paolo Barnard: sintetizzando all’estremo, quest’ultimo non solo non è protetto legalmente dalla Rai, ma rischierebbe addirittura di subire la rivalsa della tivù di Stato per un suo servizio citato in giudizio.
La questione mi appassiona perché pone – insieme – diversi interrogativi, soprattutto riguardo i limiti imposti al giornalismo d’inchiesta dalle cause civili.
Ci si lamenta spesso, in giro, che il giornalismo d’inchiesta sia assai raro sui giornali e poco si parla invece del principale ostacolo al suo sviluppo, determinato dalla cause civili con richiesta economica di danni.
Fino a pochi anni fa, quando si scriveva qualcosa di “fastidioso” per qualcuno, il rischio prevalente era quello di una querela penale per diffamazione. Il processo penale, si sa, è lento – c’era quindi tempo per far raffreddare gli animi – e comunque non si rischiavano grossi patrimoni.
A volte (ad esempio nei primi anni 90…) in attesa del processo il querelante finiva in galera per altre vicende e una volta uscito non riteneva che fosse più il caso di accanirsi contro i giornalisti, visto che tanto la sua carriera politica era finita.
In ogni caso, in sede penale c’erano molte più possibilità di far valere le proprie ragioni, in quanto non mancano le garanzie per l’imputato.
Da qualche anno invece chiunque si ritenga più o meno legittimamente “danneggiato” da un articolo fa causa civile e chiede miliardi (milioni di euro) di risarcimento.
L’effetto è devastante. Arrivano cause incredibili, per le ragioni più pretestuose e assurde. A volte, semplicemente, “ci provano”, ma intanto ottengono l’effetto di togliere la voglia a direttore ed editori di fare inchieste con nomi e cognomi.
Ovviamente è giusto che chi scrive risponda – anche in sede legale – di ciò che ha scritto, ma è l’effetto deterrente e preventivo della montagna di cause civili che non fa bene al giornalismo d’inchiesta.
Infatti tu puoi anche aver scritto tutto con il massimo scrupolo e le verifiche più attente, ma se quelli di cui parli si sentono “danneggiati” dal tuo articolo ti fanno comunque partire una causa.
Ricordo una volta in cui – come direttore di un mensile – presi una causa perché avevo chiesto a un gruppo di collaboratori con conoscenze da hacker di verificare la solidità delle difese informatiche di alcuni siti di e-commerce. Era tutto vero, ma i siti di e-commerce di cui avevamo scoperto le debolezze informatiche ci denunciarono e dovemmo transare (leggi: dargli dei soldi per ritirare la causa).
Un’altra volta fu largamente superato il limite del ridicolo quando un’azienda di pesce in scatola mi ha citato in giudizio perché avevo riportato tra virgolette il parere di un pescatore del Po secondo il quale il pesce siluro è scadente (io manco avevo parlato di questa azienda, però loro commercializzavano anche il pesce siluro).
Ho pendente una causa civile firmata da un signore latitante in Giappone e sotto processo per strage, che vuole da me un sacco di soldi perché ho scritto questo pezzo, documentato fino all’ultima virgola.
Insomma, ben venga il caso Report se serve ad accendere l’attenzione sul fatto che, alla fine, un editore ha più voglia di fare innocui pezzi fru-fru che inchieste rischiose in termini economici.
Nel caso specifico, ovviamente, la Rai farebbe una figura migliore se si prendesse la rensponsabilità di quello che ha mandato in onda, ma questa non è che una pagina di una storia molto più lunga.
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