Società

Geronzi, esce di scena il banchiere privato dell’ Innominabile

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La volpe più astuta del potere finanziario e’ finita in pellicceria. A Piazza Affari equivale alla cacciata di Mubarak dal potere. Un curriculum costellato dal salvataggio storico del Cavaliere (dai maxi-debiti di Fininvest) ai meno noti prestiti a gogo’ a Class/Milano Finanza, al crack Parmalat. In ogni caso l’egregio Diego Della Valle e’ riuscito a mandare ai giardinetti il Grande Vecchio di riferimento del sistema berlusconiano. Si consuma cosi’ il piu’ gran ribaltone di quella Jurassic Park che e’ la finanza italiana. Ecco come e’ andata.

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

La vendetta è un piatto che si mangia freddo. Il motto che Cesare Geronzi, pur dall’alto del suo consumato aplomb, ha più volte tenuto a mente e praticato nel corso della sua più che quarantennale carriera, si ritaglia anche sulle sue dimissioni dalla presidenza delle Assicurazioni Generali avvenute oggi in modo traumatico e che per un curioso caso del destino coincidono con l’inizio del processo milanese a Silvio Berlusconi, che ha avuto nel 76enne banchiere di Marino il suo maggior punto di riferimento per sbarcare nel Salotto Buono della Finanza.

La vendetta è stata consumata non tanto e non solo dai 10 consiglieri del Leone di Trieste che avevano preparato una mozione di sfiducia nei confronti del presidente, quanto dalla circostanza che fra quei componenti del board c’è Alberto Nagel. Che è da una parte il vicepresidente delle Generali messosi di traverso all’operato dell’altro vicepresidente, il finanziere bretone Vincent Bolloré che ha invece appoggiato la lunga campagna destabilizzante di Geronzi nei confronti del ceo Giovanni Perissinotto.

Ma Nagel è anche l’amministratore delegato di quella Mediobanca che con il 14% circa è l’azionista di riferimento del big assicurativo e tra le firme dei consiglieri c’è anche quella di Francesco Saverio Vinci, direttore generale dell’istituto.

Insomma, a Geronzi il benservito glielo ha dato il suo padrone. E la cosa può sembrare paradossale, visto che proprio quello che fino a ieri era considerato il più potente “power broker” italiano è stato presidente della stessa Mediobanca fino a metà del 2010.

Ma il paradosso si dissolve presto e assume la logica della vendetta che si consuma a freddo quando si riflette che il banchiere di Marino appena sbarcato a Piazzetta Cuccia cercò di depotenziare i ruoli di Nagel e di Renato Pagliaro, delfini e pupilli di quel Vincenzo Maranghi, erede fiero della tradizione del fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia. Proprio quel Maranghi, poi defunto, che Geronzi aveva contribuito a cacciare forte dell’appoggio di Bolloré che in seguito lo aveva portato alle Generali silurando il presidente francese Antoine Bernhein, cui il finanziere bretone deve gran parte dei suoi successi.

Insomma, Geronzi paga oggi il suo “stile”, quello di aver sempre cercato di minare l’autorevolezza dei suoi manager. Lo fece in Banca di Roma nei confronti di Matteo Arpe, continuò a farlo quando Capitalia si fuse con Unicredit nei confronti di Alessandro Profumo; lo fece – come dicevamo – in Mediobanca.

Potè farlo così a lungo e fino ad allora perché aveva in mano le leve del credito bancario ed è noto l'”ecumenismo” delle politiche di erogazione degli istituti guidati da Geronzi nei confronti di tutti i partiti politici della Prima Repubblica. In Mediobanca era quasi riuscito a compiere il suo capolavoro: il Salotto Buono per eccellenza, dal quale Cuccia aveva sempre tenuto fuori colui che il vecchio banchiere siciliano definiva l'”impresario” Berlusconi, spalancò invece le porte e stese il tappeto rosso alla Fininvest del premier che debuttò persino nel patto di sindacato assieme alla Mediolanum dell’amico e socio Ennio Doris, e Marina Berlusconi fu accolta nel board dell’istituto.

Sbarcato a Trieste, Geronzi pensò di comportarsi allo stesso modo, dimenticando due circostanze: di non avere più la leva del credito bancario e tralasciando che Generali è vista dai suoi soci piccoli e grandi come il “salvadanaio” dei propri risparmi. Non era pensabile, quindi, che Geronzi cercasse di piegarla – contro il management – a logiche di “sistema”, come incautamente disse appena insediatosi, magari per sostenere le politiche del governo nel social housing o – peggio – per intervenire su partite bancarie e industriali (vedi il dossier Ligresti).

Di qui la resistenza di Perissinoto, forte della “tecnocrazia” delle Generali, attorno alla quale si sono compattati gli azionisti privati come Diego Della Valle e Lorenzo Pellicioli (De Agostini). Ma, è bene ripeterlo, il “power broker” è stato licenziato in primo luogo da Nagel e Pagliaro.

Un cosa è certa: con quella che è a tutti gli effetti la cacciata di Geronzi da Trieste (peraltro salutata con entusiasmo dall’andamento del titolo Generali in Borsa, segno inequivocabile del giudizio del mercato) per la finanza italiana e per il cosiddetto Salotto Buono comincia una nuova era il cui primo banco di prova sarà il rinnovo del patto di sindacato proprio di Mediobanca, atteso per quest’autunno.

Qualcuno potrà forse dire che il benservito a Geronzi non dispiace al ministro dell’economia Giulio Tremonti, che toglie al premier Berlusconi il suo fondamentale punto di riferimento finanziario. Ma, interpretazioni politiche a parte, da oggi a Trieste e nel Paese inizia una nuova era, nel segno della volpe più astuta finita in pellicceria.

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La parabola di un banchiere di potere

di Eugenio Fatigante – Avvenire

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

La parabola del figlio del tranviere potrebbe essere arrivata al capolinea. Il suo ruggito alla guida del Leone di Trieste è durato poco meno d’un anno. Il condizionale è però d’obbligo, ripercorrendo la storia del “Cesare” della finanza italiana: che ha sì 76 anni, ma è uomo abituato a dar battaglia. Da 30 anni a questa parte, assieme al suo contraltare lombardo Giovanni Bazoli – animato da una ben diversa idea del “potere” – Geronzi, pragmatico e privo di retorica anche nel linguaggio, è uno degli uomini più potenti d’Italia, animatore di quell’autentico “sistema duale” del capitalismo nostrano: per un quarto di secolo hanno aggregato banche, contribuendo a creare da un lato il polo di Intesa Sanpaolo, dall’altro quello di Unicredit. Da lì hanno detto la loro in tutte le maggiori partite societarie del Paese. Tanto che una volta Geronzi disse di sé che per comandare le aziende gli bastava «alzare il telefono».

Dalla Banca d’Italia, in cui entrò (per concorso) a 25 anni nel 1960, fino alle Generali, il “sistema Geronzi” è vissuto su un doppio binario: in rapporti con tantissimi, in confidenza con pochissimi. Un metodo contratto forse già quando prendeva il bus alle 6,20 del mattino da Marino, graziosa cittadina alle porte di Roma, per andare al liceo classico “Pilo Albertelli”, vicino Santa Maria Maggiore. Anche su sponde opposte, è difficile trovare qualcuno che non sia stato in relazioni con Geronzi: ambienti cattolici e sinistra, Andreotti (un po’ il suo maestro) e il giornale Manifesto, Profumo e Ciarrapico, finanche (in ambito calcistico) Roma e Lazio.

Fino al suo ultimo sponsor, peraltro eclissatosi negli ultimi tempi: Silvio Berlusconi, che lo elogiò in pubblico come l’«unico banchiere che non vota alle primarie» dell’Ulivo. D’altronde proprio con il suo “pianeta”, Geronzi ha realizzato uno dei suoi capolavori: dopo aver assistito anche finanziariamente all’inizio Fininvest, una volta approdato nel 2008 alla presidenza della Mediobanca di Enrico Cuccia ha portato Mediaset nel patto di sindacato, assieme a Mediolanum, e fatto entrare Marina Berlusconi nel Cda di via Filodrammatici.

Insomma, lui, reputato un simbolo della “romanità” innestato al Nord, è riuscito ad aprire al Cavaliere le porte di quel “salotto buono” che invece gli aveva sbarrato Enrico Cuccia, che definiva il premier come «l’impresario». Dell’analisi e dell’affermazione dei rapporti di forza, d’altronde, Geronzi ha fatto la sua bussola. Fu così già in Bankitalia quando, dopo 20 anni (lì si formò la sua amicizia, poi tramontata nel 2005, col futuro governatore Antonio Fazio), capì di avere poche chances, chiuso com’era da Ciampi e Dini, e passò prima al Banco di Napoli, poi nell’82 alla Cassa di risparmio di Roma. Ma è relativamente tardi, nell’89 (a già 54 anni), che la carriera di Geronzi ha uno scatto: il Banco di S. Spirito, storica banca romana, è in difficoltà e l’Iri di Prodi lo vende alla Cassa. Tre anni dopo nasce Banca di Roma, con Geronzi ad e Pellegrino Capaldo presidente, un binomio che lungo gli anni Novanta sarà uno degli strumenti prediletti dal sistema politico, e da Bankitalia, per intervenire sul sistema, salvando banche in difficoltà (Banco di Sicilia, Bna e Bipop) e aiutando aziende decotte. Qui si innestano le amicizie anche con Sergio Cragnotti e con Giuseppe Ciarrapico. Assieme al primo “Cesarone” ha girato a Tanzi il latte di Cirio, il cui successivo crac lo ha condotto a essere indagato per frode e a subire, il 2 marzo scorso, una richiesta di 8 anni di reclusione.

Nel 2002 nasce Capitalia, ma l’altro anno-chiave è il 2005: Abn-Amro cerca di salire al 20% di Capitalia contro il volere di Geronzi, che poi muta idea e d’accordo con gli olandesi presenta a Fazio l’ipotesi Antonveneta. Fazio però dice no e opta per il progetto Fiorani. Geronzi si accredita allora come il banchiere di certo establishment, non a caso dà un contributo decisivo nella sfida per Rcs, minacciata dalle pretese di Stefano Ricucci. È la mossa che gli schiude gli orizzonti milanesi: nel 2007 arriva l’accordo con Alessandro Profumo e la fusione in Unicredit, che appanna su Roma la “stella” nascente di Matteo Arpe. E nella pagina scritta ieri c’è un micidiale paradosso che chiude l’asse Roma-Milano su cui Geronzi è cresciuto: fra i 10 pronti a dargli sfiducia c’era Alberto Nagel, che è il vicepresidente di Generali oppostosi alle mire di Bollorè, ma anche l’ad di Mediobanca (e ha firmato pure l’altro esponente di Piazzetta Cuccia), che del Leone triestino è primo azionista col 13,47%. Insomma, a dargli il benservito è stato il suo “padrone”, di cui Geronzi stesso è stato presidente fino a metà 2010.

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