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GENTILE PRESIDENTE

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(WSI) – Gentile presidente, le diciamo perché non ci fidiamo più di lei e che cosa questo significa. A parte qualche eccesso nel tono musicale (a ciascuno i suoi accordi), possiamo sottoscrivere, perché quelle cose le abbiamo scritte cento volte, il testo della lettera adorante che don Gianni Baget Bozzo le ha rivolto sul Giornale cognato in occasione del secondo raduno del suo partito nella località di Assago.

Gli caleranno pure i calzoni, a don Gianni, ma è un uomo appassionato e intelligente, ammirevole in un paese in cui spiccano troppi calzoni con la piega inappuntabile. E’ vero che lei ha fatto una rivoluzione italiana. Vero che si è trattato di un rivolgimento liberale e modernizzatore.

L’elezione diretta del capo del governo, la possibilità di governi di legislatura, l’alternanza di forze diverse alla guida dello Stato: tutto questo è stato reso possibile dalla sua sconclusionata opera, e istintiva ma feconda, che dura da dieci anni. Da quando scelse di battersi, anziché compromettersi, contro l’opaca nomenclatura che in nome del nuovo avanzante aveva assemblato nell’attacco allo stato di diritto un’imprenditoria fiacca e révoltée, giudici muscolosi e vogliosi di politica, pezzi sopravvissuti male alle vecchie tradizioni politiche dell’arco costituzionale, e una corporazione viziosa di poteri e funzionari mediatici indipendenti da tutto ma non dalla finanza che li possiede.

E’ anche vero che grazie a lei questo paese dopo l’11 settembre non si è imboscato, e ha fatto quel che doveva e poteva, con parecchi limiti che non dipendono dal governo pro tempore ma da una lettura costituzionale ribassista e da una cultura prevalente d’impronta mammista. Vero che l’Italia sua preoccupa come un’anomalia intollerabile le cancellerie dell’Europa continentale che da tre anni e mezzo sono la nostra bestia nera, ed è come un cuneo conficcato nella loro indifferenza politica verso la risposta occidentale alla grave crisi di civiltà che percorre il mondo.

Vero, anzi verissimo, che il solo fatto della sua esistenza in politica è la punizione di ogni giorno per il sussiegoso snobismo e il penoso moralismo della classe intellettuale più noiosa, meno autentica, più incolta e derelitta che si sia mai conosciuta nella storia nazionale ed europea. Impeccabile anche questa osservazione: lei ha cambiato in meglio la forma del centro sinistra, che è una creazione del bipolarismo da lei reso possibile con l’ingresso in politica e i modi dell’antipolitica, e al tempo stesso è vittima inconsapevole del suo imbarbarimento civile quanto alla sostanza della vita istituzionale, cioè della sua deresponsabilizzazione nella guerra nullista dei capi e nell’inseguimento di quello che don Gianni chiama “anarcomassimalismo” (e ci dispiace per Michele Serra che invoca un linguaggio più trendy).

Aggiungiamo che i risultati del suo governo dei tre anni, guardati con un minimo di equilibrio e sottratti sia alla palloccolosa propaganda numerica dei suoi manifesti e contratti appo notaio sia al vociante lamento sul declino del paese e sull’impoverimento delle masse, non sono una catastrofe.

Lei dirà: e allora? Che c’è che non va, dopo tutti questi riconoscimenti? C’è che lei non guida il paese entro una misura minima di ordine politico, e la sua coalizione e perfino il suo movimento le si sottraggono o le si sottomettono, ma non fanno luce, non producono un linguaggio nuovo, non sono ancorati a null’altro che non sia un rapporto nevrotico con la sua capricciosa personalità (sia pure eccezionale, come dice Baget Bozzo, ma non priva di volatilità e di futilità e di egotismi ormai impressionanti perché tendenti all’incurabilità).

C’è che lei ha prodotto una classe dirigente cui continua a mancare, salvo rarissime eccezioni, l’amore per la cultura e per la politica stessa, cioè una cura minima del senso di marcia di un’opera che dovrebbe essere collettiva e pensante, ma risulta invece in moltitudine sparsa a caccia di varie ed effimere convenienze. Certo che è un bla bla, questo che le scriviamo, certo che sono chiacchiere incompatibili con la “cultura del fare” di un imprenditore milanese orgoglioso della sua estraneità alla politica istituzionale.

Ma dopo avere sposato, interpretato, accarezzato con simpatia non servile la sua parola, per tanti anni e con l’alta redditività politica ricordata prima, ora la sentiamo muta. Perché c’è un problema di soglia. Lei, gentile presidente, continua a nutrire l’illusione che si possa stare in politica da imprenditore curando di diventare sempre più ricchi e sempre più indifferenti alla soluzione di un gigantesco conflitto di interessi che i suoi nemici attaccano per le ragioni sbagliate, e con la coda di paglia, ma che per i suoi amici non ossequienti esiste, ed esiste anche per lei.

Lei pensa che si possa annunciare la riforma dell’articolo 18 e poi mollarla lì con un gesto di stizza e di stanchezza. Che si possa annunciare la riforma delle pensioni e la rivoluzione fiscale promesse lasciando che con il tempo tutto si insabbi e si rimpicciolisca fino all’invisibilità. Lei pensa che la riforma istituzionale sia una penosa necessità, e vediamo che succede. Lei pensa che la riforma della giustizia sia l’aspetto vano e astratto della concreta e sacrosanta battaglia per bloccare coloro che le scaraventano addosso personalmente la giustizia politica: gli altri, e i loro diritti civili, vengono tanto dopo che non si vedono più.

Lei pensa che si possa tirare avanti con la neutralizzazione dell’informazione e della discussione pubblica, lasciando più o meno ai suoi avversari le loro caselle, eliminandone alcune con censure goffe, conquistandone altre nella logica della solita blandizie verso il potere, non producendo niente di serio e di nuovo, e cioè nuovi spazi di libertà politica, in attesa che qualche nuovo potere editoriale arrivi e pieghi le ginocchia a lei personalmente, come fanno (con la riserva di rivoltarsi al momento giusto) i soliti padrinati dell’emittenza pubblica.

Lei pensa che tutto le sia dovuto, che gli alleati siano azionisti di minoranza della sua azienda, che gli amici siano famigli o strumenti, che le idee contano solo se si traducano in scoop vincenti nel mercato dell’immagine personale del leader. Lei rifiuta categoricamente di comprendere l’altra parte del paese nelle sue sfumature e diversità, e ritiene che basti staccare la cedola dell’incomunicabilità e della reciproca delegittimazione ideologica, magari teorizzando l’amore contro l’odio: così tutto si semplifica in modo avvilente, le istituzioni si irrigidiscono in una contesa corporativa di un tedio bestiale, e la società non è scossa e rivoluzionata da idee nuove e dalla passione di governare, persuadere, spiazzare, sorprendere.

Insomma, oltre una certa soglia la sua simpatia, il suo genio e talento personale, la sua cocciutaggine e libertà di tono, anche nelle peggiori gaffe, diventano un materiale povero, una ripetizione coatta di automatismi senza più senso. Non c’è pregiudizio né gnagnera moralistica in tutto questo nostro dire: c’è un senso di sbadiglio che vorremmo allontanare.

Siamo stati cantori del berlusconismo e della sua autoironia, su spartito scritto da noi stessi, e di fronte alle sue vanità o al grottesco culto spirituale del Capo ci siamo anche compiaciuti di dire che lei andava accettato così com’è: non è il presidente del Consiglio, è Berlusconi.

Ora non ci fidiamo più di lei e della fiducia allegra, ma non assoluta, che in lei abbiamo risposto per tanti anni. Dopo esserci battuti a lungo e con tenacia (battaglia vinta) per una persona avventurosa che era una politica e insieme la riforma possibile della politica, nel ‘94 e nel 2001 e negli anni attraverso, abbiamo poi aspettato una politica di là dalla persona, ma invano.

Se la cosa la interessa, ma è dubitabile, veda un po’ che cosa può fare. I tempi sono così grami che il sostegno alla sua opera non ha alternative, e forse questo a lei può bastare, per quello che conta. Noi vorremmo anche poterla apprezzare, l’Opera. Ma è tardi, sempre più tardi.

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