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(WSI) – Che storia si può nascondere dietro un’opera d’arte? Prendiamo «Woman III», un dipinto di de Kooning. Uno dei sei quadri che il maestro ha voluto intitolare al gentil sesso, l’unico che non figura nel catalogo di uno dei grandi musei di arte contemporanea.
Quel quadro, fino a poche settimane fa, faceva bella mostra di sé a Beverly Hills, sulle pareti della villa di David Geffen, uno dei personaggi più importanti dello show business americano: fondatore di DreamWorks assieme a Steven Spielberg, grande naso musicale, al punto da scoprire gruppi come i Nirvana e i Gun’s and Roses, negli anni Ottanta.
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Per acquistare il de Kooning (68 pollici per 48,5), dipinto ad olio tra il ’52 e il ’53, Geffen non solo non aveva badato a spese ma aveva ingaggiato una sorta di caccia al tesoro, a metà strada tra l’intrigo diplomatico e il coraggio alla Indiana Jones. Alla fine, nel 1994, c’era stato uno scambio misterioso, nell’hangar dell’aeroporto di Vienna: da una parte l’avvocato di Geffen, dall’altra l’emissario del museo di Teheran.
L’incaricato degli ayatollah consegnava all’uomo di Hollywood il quadro, finito in Iran negli anni dei petrodollari facili, quando la borghesia dello Scià mirava a imitare stili e gusti dell’America post-moderna. Geffen, in cambio, consegnava agli iraniani un prezioso manoscritto del XVI secolo, un prezioso libro che dipinge, con magnifiche miniature, l’ascensione al trono dello Scià Tahmasp. Chissà come si era sviluppata la trattativa di Geffen con gli ayatollah. E chissà come era riuscito il miliardario Usa (4,5 miliardi di dollari in portafoglio, secondo l’ultimo Forbes) a procurarsi l’oggetto del desiderio degli eredi di Khomeini.
Probabilmente non si saprà mai: perché Geffen non è dei più loquaci, quando si parla dell’arte.E così ci vorrà del tempo anche per avere la spiegazione della vendita, all’apparenza folle, di una delle maggiori collezioni private d’arte del mondo. Perché Geffen ha venduto, probabilmente di venerdì 17, il «suo» de Kooning? Certo, una spiegazione sta nel prezzo.
Il 2006 passerà alla storia come l’anno della corsa al cielo dei prezzi delle opere d’arte, compreso il periodo contemporaneo. Per «Woman III», una delle punte più elevate dell’ossessione di de Kooning per il corpo femminile (dipinto all’inizio degli anni Quaranta con rapidi tratti, graffiti sulla tela con giganteschi occhi vuoti, sorrisi a tutto denti ed enormi petti), Geffen riceverà 137,5 milioni di dollari. Ma Geffen, il miliardario di Hollywood che ha moltiplicato per dieci il patrimonio scoprendo i migliori gestori di hedge fund all’inizio della loro carriera, non ha certo bisogno di spiccioli.
La trama si complica se si guarda a quel che è successo negli ultimi mesi, tra New York e Los Angeles. Pochi giorni prima del de Kooning, il mercato è stato scosso da un’altra vendita record: 140 milioni di dollari, il primato assoluto per una compravendita di opere d’arte contemporanee, per il dipinto «No.5, 1948» di Jackson Pollock. A comprare in questo caso, è un finanziere messicano, David Martinez, che per la verità continua a smentire l’operazione a tutti i giornali. A vendere, al solito, è stato Geffen. E non è finita qui.
Ad ottobre, dalle pareti della villa di Los Angeles, è stato staccato «False Start» di Jasper Johns, più un autoritratto di Manet e un’altra opera di Jackson Pollock. E poi è toccato a un altro de Kooning, stavolta valutato solo 63,5 milioni. In tutto, secondo il tam tam dei mercati d’arte Usa, Geffen ha venduto in un mese e mezzo quadri per 550 milioni di dollari.
Un terremoto, insomma. Anche se il mercato si è dimostrato in grado di assorbire senza apparente sforzo un’offerta di queste dimensioni. Il che la dice lunga sulla forza d’attrazione del più prestigioso bene rifugio ai tempi della grande liquidità. Una forza che viene confermata dall’accusa lanciata dalla Tribune de Génève: le grandi case d’aste, Christie’s e Sotheby’s, sono solite offrire provvigioni ai grandi studi legali per essere informati in anteprima sui patrimoni artistici liberati in caso di eredità.
Ma torniamo alla California. Il mistero delle vendite potrebbe avere una spiegazione semplice, anche se sorprendente: Geffen è intenzionato a conquistare il controllo del Los Angeles Times, il giornale nelle mani del gruppo Tribune di Chicago. Il quotidiano, che naviga in cattive acque, potrebbe valere tra 1,5 e 2 miliardi, in caso d’asta. E Geffen, dopo aver vinto le sue sfide nel business, nella musica e nel cinema, vuol farsi consacrare come il nuovo Randolph Hearst, l’uomo che fece da modello ad Orson Welles per lo straordinario Quarto Potere.
Ma per un potenziale tycoon che vende, chi arricchisce le proprie collezioni d’arte? Qui la risposta è facile: i gestori di hedge fund. Tra i clienti di Geffen, oltre a Martinez, figurano Kenneth C. Griffin, gestore del Citadel Investment group di Chicago. E, soprattutto, Steven A. Cohen, l’uomo che non solo dirige un hedge fund ma ha rivoluzionato il mercato dell’arte importando le tecniche di hedging adottate nel mondo dei derivati.
È lui il fortunato mecenate del nuovo Millennio. «Siamo stati fortunati – ha annunciato, raggiante, il suo consulente artistico, Sandy Heller – ci trovavamo al posto giusto, con l’assegno giusto al momento giusto. E così ci siamo aggiudicati il quadro più importante di de Kooning che non faccia parte della collezione di un museo». E Cohen aveva bisogno di un premio di consolazione. Ad ottobre tutto era già in regola per un altro affare del secolo: «Le Reve» cioè il ritratto che Pablo Picasso dedicò a Marie-Therèse Walter.
Cohen aveva definito il suo acquisto per 139 milioni di dollari. Ma il venditore, il miliardario Steve Wynn proprietario dell’Hotel Bellagio di Las Vegas, una delle cattedrali del gioco, ha rovinato tutto… alzando il gomito. Pare che Wynn abbia colpito la tela, inavvertitamente, con un movimento brusco. E che il danno sia irreparabile. Ci credete? Chissà. Quante storie ci sono dietro a un quadro.
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