Società

FUORI DAL TUNNEL NE’ CON LO STATO, NE’ COL MERCATO

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Tre fenomeni planetari hanno minato la ingenua ventata di liberalismo degli
anni Novanta: la prolungata depressione economica; il successo dello sviluppo
cinese – governato da un regime autoritario – e la deludente esperienza della
liberalizzazione nell’ex impero sovietico; l’ondata di scandali finanziari che
ha accompagnato – alla fine di una tumultuosa espansione – il
ridimensionamento dei corsi di Borsa.

Dicono a Wall Street che l’alta marea
solleva tutte le barche e nessuno si meraviglia, negli Stati Uniti, che
truffatori ed incapaci si presentino all’appello, quando la marea del ciclo
economico si ritira e navigare tra gli scogli diventa più pericoloso ma anche
più redditizio. Solo per chi ci riesce naturalmente.
In questo scenario monta il rimpianto di uno Stato capace di proteggere gli
interessi individuali sotto le proprie ali e si respira diffidenza verso il
Mercato.

La voglia di protezione, contrapposta alla sfida della
responsabilità individuale, imposta dalla civiltà degli scambi, alimenta la
nostalgia di Colbert e la sfiducia verso i mercanti, che diventerebbero ricchi
solo perché sono più abili nel saccheggio delle casse dello Stato o di
quelle dei risparmiatori, con la complicità dei banchieri. Seguendo questa
deriva si arriva in un mondo singolare in cui mercanti e banchieri sono
certamente pirati, mentre gli uomini di Stato diventano padri premurosi e
scrupolosi tutori del bene comune. Una rappresentazione tanto ingenua quanto
inverosimile, eppure la stampa europea, e quella italiana in particolare,
cullano l’opinione pubblica con questa favola e riscuotono un certo successo.

Vale la pena, per par condicio, di fare pubblicità a una favola americana
apparsa sulle pagine dei Working Papers del National Bureau of Economic
Research nell’aprile del 2003. La storia è stata raccontata da tre docenti di
Harvard, un loro collega di Yale e da un senior economist della World Bank.
(The new comparative economics, Djankov, Glaeser, La Porta, Lopez-de-Silanes e
Shleifer, NBER Working Papers 9608 at http://www.nber.org). La morale di
questa favola americana è molto semplice. L’analisi dell’equilibrio virtuoso
tra istituzioni e mercati non si e’ esaurita con la scomparsa delle economie
socialiste e la sopravvivenza di quelle che avevano seguito un ordinamento di
mercato.

Quella scomparsa ha eliminato un equivoco: la possibilità di
concentrare in un pianificatore, intelligente, e controllato dal regime
politico, il potere di coordinare ex ante le scelte di una moltitudine di
produttori e consumatori meglio di quanto potrebbero fare essi stessi.
Scomparsa la chimera della giustizia sociale garantita da un regime imperiale,
rimane aperta la scommessa di come garantire la produzione di ricchezza in
termini efficienti e la distribuzione del benessere, che quella ricchezza può
alimentare, in termini di equità sociale condivisa. Il metodo degli
economisti americani è intrigante.

Ogni società deve scegliere dove collocarsi lungo una frontiera che
rappresenta il trade off tra due mali da evitare. Il danno creato dal
disordine, generato da un eccesso di potere degli attori privati e dal loro
egoismo – che non è sempre una bussola capace di indicare la strada del
benessere generale – e il danno generato dal potere arbitrario di una
dittatura della politica, cioè dalle scelte incontrollabili di attori che si
proclamano interpreti degli interessi generali.

La frontiera è descritta da
una curva in cui la riduzione marginale di uno dei due mali determina un
incremento più che proporzionale dell’altro male. Essi, insomma, potere delle
istituzioni ed intraprendenza dei privati, sono entrambi necessari per
generare l’equilibrio virtuoso, che si genera quando i danni necessari
dell’uno riescono a che mitigare i danni dell’altro. Il compito della politica
economica non si risolve, allora, nella celebrazione del mercato e nelle
esequie del socialismo. Si tratta di creare “package” istituzionali,
coerenti con la cultura locale e con la morfologia della struttura sociale,
che sappiano trovare, caso per caso, quel punto di equilibrio in cui i due
rami della curva si tengono tra loro e non fuggono per la tangente: generando
una slavina che premia il disordine della dittatura o quello dell’anarchia.

Questa ricerca dell’equilibrio possibile tra istituzioni, interessi
individuali, valori condivisi e beni collettivi è la politica economica.
Percorrere questa strada diventa un obbligo per chi vuole riformare la
società europea senza infilarsi nei tunnel, senza uscita, di esperienze
consumatesi alla ricerca di una protezione capace di neutralizzare il rischio
delle scelte e la responsabilità delle loro conseguenze.

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