Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Il dibattito sul «malato
d’Europa» viene rilanciato
dal survey sull’Italia
che l’Economist pubblica
questa settimana e da un editoriale
uscito ieri sul Financial
Times, durissimo contro
le «priorità di Berlusconi che
mettono in pericolo le riforme
».
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Le priorità del premier,
«un governante che divide»
secondo il quotidiano della
City, sono in questo ultimo
scorcio di legislatura: la devolution
che «indebolirà la
coesione dello stato italiano
e renderà molto più difficile
il trasferimento di ricchezza
dal ricco nord al povero
sud», la ex Cirielli, la riforma
elettorale cioè «il ritorno al
vecchio sistema proporzionale
che ha prodotto governi
cronicamente instabili per 45
anni». Le priorità dell’Italia,
invece, sono altre: stagnazione
economica, perdita di
competitività (e quindi quote
di mercato internazionale),
una regressione del reddito
nazionale (fra cinque anni
saremo superati dalla Spagna,
sostiene l’Economist).
È a queste priorità che ha
dedicato il suo editoriale domenicale
un altro “foglio rosa”,
Il Sole 24 Ore, a firma del
suo direttore Ferruccio de
Bortoli. «Guardando alla
qualità, risibile, del nostro
confronto sui temi della concorrenza
e della crescita –
scrive – viene il dubbio che
qualunque sia il risultato delle
prossime elezioni la situazione
non cambi. O cambi
poco. L’interrogativo è dunque
se non vi siano ancora
nel nostro paese troppe riserve
sull’economia di mercato
e se non sopravvivano molte
tossine antindustriali delle
due principali eredità politico-
culturali del dopoguerra,
quella socialista-comunista e
quella cattolica. In altre parole,
se la cultura prevalente
non conservi una resistente
riserva mentale sui valori
dell’impresa e della imprenditorialità
».
L’interrogativo
di Ferruccio de Bortoli (retorico
a risposta affermativa)
per noi è una certezza. Potrebbe
stupire che questa «riserva
mentale» sia prevalsa
anche in un personaggio come
Berlusconi che nasce imprenditore
prestato alla politica
e che aveva costruito
Forza Italia come partito-impresa.
Evidentemente, in
questi dieci anni, la legge
bronzea della politica italiana
accoppiata al conflitto di
interessi, ha lasciato l’impresa
in soffitta e riplasmato il
partito secondo le culture
politiche dominanti.
De Bortoli non risparmia
nemmeno quegli imprenditori
che «non nascondono una
certa diffidenza verso l’internazionalizzazione,
si rifugiano
nelle rendite o, appagati,
liquidano la loro attività,
curandosi poco della
successione». Purtroppo
non sono eccezioni e questi
comportamenti si estendono
anche a imprenditori giovani,
persino nella cosiddetta
new economy. Il direttore
del Sole cita sconsolato i rari
esempi di «autentici liberali.
Vasi di coccio di questa
legislatura». Antonio Martino
a destra, Franco Debenedetti,
Michele Salvati, Nicola
Rossi a sinistra.
Si può fare qualcosa contro
questo cupio dissolvi bipartisan?
Forse si può se il
gruppo dirigente della Confindustria
si fa promotore di
uno Statuto dell’impresa che
diventi la leva di una vera rivoluzione
culturale. Gli industriali
dovrebbero riprendere
le proposte che Guido Carli
lanciò vent’anni fa, ovviamente
aggiornate. Per dimostrare
che non si tratta di una
operazione lobbistica. Al
contrario l’allora presidente
della Confindustria metteva
in primo piano quel che il
mondo delle imprese era disposto
a dare (in termini di
riforma) prima ancora di
chiedere.
Su questa base sarebbe
possibile aggregare un
vero e proprio movimento di
opinione che non raccolga
solo «prestigiosi quanto inascoltati
riformisti, liberi di
non contare nulla», ma si rivolga
al mainstream della
politica, ai cittadini, agli elettori.
Non il partito della borghesia,
ma l’insieme delle
forze produttive e delle intelligenze
riformatrici, disposte
a battersi contro la
dittatura dello status quo.
Con le nostre piccole risorse,
ci possiamo impegnare fin
da ora a sostenerlo.
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