(WSI) – Perché Gianfranco Fini deve dirci la sua sull’incredibile storia della casa di Montecarlo? Non si tratta né di un gossip né di un dettaglio irrilevante: proviamo a spiegare perché. La rottura del Pdl e la piccola guerra civile a cui stiamo assistendo, non è un minuetto di Palazzo, e nemmeno un riposizionamento gattopardesco di poteri. No. Come abbiamo intuito e scritto da mesi, il racconto sciamanico del berlusconismo si è infranto, il carisma del Caimano scema con la stessa velocità con cui si gonfiano le borse sotto i suoi occhi e l’ordito di rughe sulla sua fronte rimodellata.
Un fatto è ormai certo: il tempo delle illusioni e dei miracoli da campagna elettorale è finito. Di pari passo, mentre qualcuno ironizzava sui finiani, noi li abbiamo presi terribilmente sul serio spiegando i motivi politici da cui derivava la loro forza, narrandoli nella loro impresa di insurrezione morale senza pregiudizi, a tratti persino con simpatia.
Proprio per questo – una volta ufficializzata la rottura – la reazione dei lanzichenecchi azzurri, contro di loro, sarebbe stata spietata. Bastonature dei tiggì di regime, agguati, embargo mediatico. Malgrado questa certezza, le notizie restano notizie. È una notizia (data da Il Giornale) che un appartamento di inestimabile valore, donato da una ricca nostalgica per passione ideale, finisca, attraverso strane triangolazioni off shore al signor Tulliani, cognato del presidente della Camera. Lo è ancora di più, quello che ci racconta Libero: la cessione dell’immobile sarebbe iscritta nel bilancio di An per soli 67 mila euro. Una vendita di favore? Un pasticcio? Un atto di familismo immobiliare? Di fronte a questi dubbi Fini può dare qualsiasi spiegazione. L’unica cosa che non può fare – se vuole restare credibile – è tacere.
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Fini, la compagna, il cognato e la strana casa a Montecarlo
di Gian Marco Chiocci
L’alloggio lasciato in eredità ad An dalla vedova Colleoni, va a una finanziaria estera. Ora ci abitano alcuni familiari del presidente della Camera.
(WSI) – Il fantasma della vedova Anna Maria Colleoni, fascista convinta e poi generosa benefattrice del patrimonio di An, si aggira spaesato fra i tornanti di Montecarlo. È confuso, lo spettro. Non capisce. Perché quando la nobildonna abbandonò per sempre questo mondo, ormai più di dieci anni fa, nel testamento fece inserire un lascito da due miliardi e mezzo di lire al partito dell’ allora segretario Gianfranco Fini: un bel terreno a Monterotondo, case a Roma e a Ostia, un appartamento di 70 metri quadrati più terrazzo in un’elegante palazzina del Principato di Monaco. Tutta roba messa a bilancio e utilizzata dal partito, nel 2001, per andare in attivo.
Per sette-otto anni l’immobile monegasco è rimasto sfitto, abbandonato, frequentato solo dai topi nonostante piovessero offerte mirabolanti dai condomini che allora arrivarono a proporre 10- 15 mila euro al metro quadrato (le agenzie immobiliari della zona parlano di un valore attuale stimabile intorno ai 25-30mila a metro quadrato).
Due anni fa, improvvisamente, il palazzo ha preso atto che il locale disabitato aveva cambiato proprietario. Non più Alleanza nazionale, che attraverso i suoi emissari-parlamentari La Morte e Pontone aveva eseguito personalmente i sopralluoghi nel palazzo Milton respingendo puntualmente tutte le richieste d’acquisto del vicinato, bensì una Ltd, una misteriosa società off shore con sede in chissà quale angolo del pianeta, che a sua volta s’era rivolta a una sottoimpresa del colosso di costruzioni Engeco per svolgere lavori di ristrutturazione dell’appartamento con abbattimento di muri interni e rifacimenti del pavimento.
Il committente dei lavori si chiama Giancarlo Tulliani. Per sapere se questo nome corrisponde al fratello della signora Elisabetta, compagna del presidente della Camera, siamo andati direttamente a Montecarlo. E per capire l’esatta trafila che aveva fatto l’immobile, donato dalla discendente del condottiero Colleoni al partito, ceduto a una società off shore, e poi finito nella disponibilità del (presunto) cognato dell’ex presidente di quello stesso partito a cui l’immobile era stato regalato, ci siamo premurati di chiedere ai diretti interessati.
Al partito, contattati La Morte e Pontone, nessuno ha saputo dare chiarimenti su a quanto era stato venduto l’appartamento, a chi era stato alienato e se fosse vero che Fini e la signora Tulliani – come ci raccontano i vicini – hanno visionato quell’appartamento tempo addietro. Poi abbiamo chiesto a monsieur Tullianì, che di nome fa effettivamente Giancarlo e che corrisponde, due gocce d’acqua, al fratello di Elisabetta Tulliani, l’ex compagna di Gaucci, oggi consorte del cofondatore del Pdl. Siamo andati al 14 di rue Princess Charlotte, proprio accanto all’elegante Novotel, abbiamo varcato l’uscio d’ingresso col nome «Tulliani» impresso sul citofono e a soli tre metri dal portone, di buon mattino, abbiamo suonato al campanello dell’appartamento con su scritto, anche qui, «Tulliani ».
L’occupante ha prontamente risposto. Prima di aprire ha preteso di sapere chi fossimo. Ci siamo educatamente presentati: nome, cognome, professione, giornale di riferimento, motivo del disturbo. Da quel momento, però, l’inquilino non ha più parlato e si è ben guardato dall’aprire a un cronista del Giornale . Preso atto del silenzio assordante, siamo andati via. Poi è arrivata la polizia, chiamata da quel monsieur Tulliani che anziché rispondere a un paio di domande del Giornale ha preferito denunciarci alla Sureté Publique. Quando sono piombate le volanti Giancarlo Tulliani ha parlato di (inesistente) violazione della privacy e del domicilio. Così siamo finiti per due volte sotto interrogatorio, invitati a lasciare il Principato, addirittura foto- segnalati al commissariato. Tanta solerzia, perché? (1. Continua)
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Montecarlo, appartamento in regalo. E Fini ci mette il fratello della Tulliani
di Gian Marco Chiocci
La contessa Colleoni regalò a Fini l’appartamento per sostenere la “battaglia del partito”. La casa dei misteri faceva gola a tutta Monaco.
(WSI) – Da Monterotondo a Montecarlo. Il gran premio immobiliare Colleoni-Fini-Tulliani durato undici anni, corso a milletrecento chilometri di distanza, accende il verde ai semafori nel lontano 1999 allorché la contessa Anna Maria Colleoni, discendente del celebre capitano di ventura, il 12 giugno muore nella sua tenuta di Monterotondo, a venti chilometri da Roma. Dieci giorni dopo la dipartita, aperto il testamento, si scopre che Alleanza nazionale erediterà beni per due miliardi e mezzo di lire, ivi compreso l’appartamento del Principato di Monaco attualmente occupato da Giancarlo Tulliani, «cognato» di Gianfranco Fini.
La città di Monterotondo dalla fine della guerra è sempre stata amministrata dalla sinistra, da cui il soprannome di Stalingrado del Centro Italia. È qui che la nobildonna coltivava i suoi interessi e l’amore, sviscerato, per la politica. Da sempre fervente fascista, figlia di fascisti, Anna Maria Colleoni non faceva mistero delle sue simpatie destrorse tant’è che gli esponenti locali di Alleanza nazionale la adottarono e ne difesero le istanze nei confronti del Comune contro il quale, di tanto in tanto, la signora si confrontava per problemi di confinato, vincoli e di potenziali espropri della sua terra ricca di albicocche.
Tanto era il trasporto per la fiamma di Giorgio Almirante che quando, a metà degli anni ’90, le si prospettò l’occasione di incontrare a tu per tu Gianfranco Fini in una saletta riservata del ristorante Villa Ramarini prenotato per festeggiare l’elezione dell’allora consigliere comunale Roberto Buonasorte (oggi alla Regione con la Destra di Storace) non si fece pregare due volte.
Scortata dal futuro consigliere Marco Di Andrea, la contessa andò incontro a colui che riteneva il degno erede della sua antica fede e stringendogli le mani gli sussurrò che quando sarebbe morta il partito avrebbe ereditato ogni suo avere: «Caro Gianfra’, se te comporti bene quando me moro te lascio tutto. Da camerata a camerata». Gianfranco Fini, molto carinamente, fece gli scongiuri. «Stia serena, camperà cent’anni». Lei ricambiò l’augurio mantenendo gli impegni. A dicembre del 1997 prese carta e penna e stilò un testamento olografo, che poi recapitò, via pony express, al notaio Giuseppa Spadaro. Un unico foglio, ventidue righe scritte personalmente a penna.
Chissà, forse immaginando quel che Fini avrebbe combinato nel tempo, aggiunse una postilla tutta da leggere. «Io sottoscritta Anna Maria Colleoni dichiaro liberamente di nominare erede universale dei beni mobili e immobili che mi appartengono al momento del mio decesso, il partito Alleanza nazionale nella persona del suo attuale Presidente on. Gianfranco Fini come contributo per la buona battaglia».
La «buona battaglia» a cui la contessa si riferiva sicuramente nel 1997, e fors’anche nel 1999, probabilmente non era quella che Fini sta ancora finendo di combattere. Ne sono convinti i vecchi camerati di Monterotondo che alla Colleoni intestarono il circolo di An in via Fratelli Bandiera (ex Santucci), in gran parte transitati con Storace, il resto confluiti nel Pdl. Talmente convinti che, alla luce di quel che sta emergendo in queste ore, rileggendo attentamente le volontà della nobildonna sta maturando l’idea di portare in tribunale l’erede universale.
Come fare? Gli ex aennini Marco Di Andrea e Roberto Buonasorte sono i capofila di questa «rivolta» anche perché si sentono traditi dal loro vecchio partito che mai si preoccupò di consultare i politici locali sull’opportunità di utilizzare in loco parte dei proventi delle vendite degli immobili ereditati per realizzare opere sociali a cui la stessa contessa teneva tanto. «Un dato è certo. Tra il ’97 e il ’99 la Colleoni donò tutto al partito, e a Fini in subordine, in nome della buona battaglia. Una buona battaglia che Fini ha condotto sino ai giorni della morte della contessa, tant’è che la signora non ha mai revocato il testamento del ‘97.
Dai primi anni 2000, però, Fini ha cambiato pelle a partire da certe, plateali, prese di distanza di valori storici della destra». Ecco il punto. Il punto della «buona battaglia», sul piano giuridico, sarebbe un «onere» ineludibile, interpretabile ai sensi dell’articolo 647 del Codice civile che testé recita: «Onere: tanto all’istituzione di erede (in questo caso il partito, ndr) quanto al legato può essere apposto un onere». Come dire: io ti lascio questo patrimonio e tu lo devi utilizzare per la «buona battaglia» voluta dalla contessa. «L’onere impossibile (…) rende tuttavia nulla la disposizione se ne ha costituito il solo motivo determinante», e in questo caso la «buona battaglia» lo è.
Ma c’è di più. Di Andrea e Buonasorte fanno notare come l’articolo successivo, il 648, offre un’indicazione importante su come avviare la pratica per l’annullamento dell’atto. «Leggete bene. Si dice che “per l’adempimento dell’onere può adempiere qualsiasi interessato”, dunque qualunque iscritto di An può rivolgersi alla magistratura. E si legge anche che nel caso di inadempimento dell’onere, quindi laddove tu Fini non fai la buona battaglia che stava a cuore alla contessa, l’autorità giudiziaria, e dunque il tribunale, può pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria.
Che vuol dire? Che se ti levo la qualifica di erede, tu Fini o tu partito, mi ridai tutto indietro». Il ragionamento, a sentir loro, si chiude a meraviglia: «Letto il codice, letta la storia politica di Fini ai giorni nostri, letto l’articolo del Giornale sulla casa di Montecarlo, qualunque iscritto ad Alleanza nazionale può recarsi in tribunale e dire: siamo venuti a conoscenza di questa problematica, chiediamo formalmente che tutti i beni della contessa Colleoni vengano tolti al partito», con ovvia eccezione per alcuni legati che la contessa ha riservato ad alcuni nipoti non avendo avuto figli.
«Rispetto a tutto questo enorme patrimonio – attacca Di Andrea – avremmo potuto piantare una grana infinita ma abbiamo voluto evitare per rispetto del partito di cui facevamo parte. E che anziché prendere tutto e scappar via avrebbe potuto lasciare qualche briciola al circolo monterotondese di An. L’intera gestione dell’eredità della contessa non c’è piaciuta. Siamo rimasti molto male».
Buonasorte incalza: «Al senatore Pontone, l’amministratore dei beni di An, dicemmo che non era nostra intenzione speculare su questa eredità ma che almeno ci dessero una giusta riconoscenza delle grandi battaglie combattute in questo paese. Non volevamo toccare palla, non ci interessava lucrare. Tant’è che quanto il senatore Pontone ci rispose che il partito aveva bisogno di fare cassa per le elezioni e quindi doveva vendere al miglior offerente, alzammo le braccia rassegnati». S’intromette Di Andrea: «Va poi tenuto conto che sul terreno della contessa noi presentammo un progetto per una edilizia che andasse un po’ incontro al sociale, contemplasse pure un dopolavoro e un parco giochi per bambini intestato alla contessa. Il fondo fu venduto a un costruttore della zona. Niente di quel poco che chiedevamo ci è stato dato».
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