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FINANZA & RIFORME: UN QUADRO DESOLANTE

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(WSI) – Mentre la crisi economica diventa di giorno in giorno più acuta, si susseguono le proposte di riforma delle regole e dei meccanismi di sorveglianza del sistema bancario in vista del vertice del G20 in programma negli Stati Uniti in settembre.

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I Paesi occidentali si propongono di giungere con una posizione unica, che dovrebbe essere definita, almeno nelle grandi linee, nel vertice del G8 che si terrà in Italia il mese prossimo. L’obiettivo di trovare una posizione comune si presenta di difficile realizzazione. L’Unione Europea, a causa dei veti incrociati tra i diversi Paesi, ha deciso per il momento di non decidere. In particolare, non vi è consenso sulla creazione di un organo di sorveglianza sovranazionale.

Dall’altra parte dell’Atlantico, il presidente Obama ha presentato un pacchetto di riforme che ora dovrà passare al vaglio del Congresso. Le proposte americane hanno raccolto critiche a destra e a manca, tranne che a Wall Street, poiché, come giustamente ha scritto l’economista Luigi Zingales, «premiano i responsabili della Caporetto finanziaria» (ossia, i principali responsabili dell’attuale crisi). Pur non entrando nei meandri, spesso di natura tecnica, delle diverse proposte, si possono comunque esprimere alcune considerazioni.

Sia le autorità politiche americane sia quelle europee non vogliono trarre le debite lezioni dal disastro provocato dal settore finanziario. In termini più crudi, la crisi non ha intaccato il potere d’influenza dei gruppi di pressione legati al settore finanziario. La logica delle diverse proposte non mira a favorire le attività finanziarie utili al buon funzionamento dell’economia e a penalizzare quelle che producono effetti negativi o addirittura che sono foriere di nuovi disastri. In parole povere, non vi è alcuno sforzo per individuare quali attività e quali strumenti della nuova ingegneria finanziari siano utili e quali nocivi o addirittura distruttivi per lo sviluppo dell’economia reale.

Eppure, i problemi sul tappeto sono chiari. La crisi ha evidenziato che si è manifestato un rischio sistemico che non è stato nemmeno lontanamente intravisto da alcun organo di sorveglianza. Si propone che il compito di vegliare, perché non si ripeta un’evenienza simile, venga dato negli Stati Uniti alla Federal Reserve, che dovrebbe anche coordinare la pletora di organi diversi di sorveglianza e in Europa alla Banca centrale europea.

Questa proposta è assolutamente ragionevole, poiché gli istituti di emissione dovrebbero avere non solo il compito di governare il ciclo economico attraverso gli strumenti classici della politica monetaria, ma anche di garantire la stabilità del sistema finanziario con il quale interagiscono quotidianamente.

L’attuale crisi mette però in luce che le banche centrali non hanno previsto la crisi. Questo fallimento non è dovuto ad incapacità (come si usa dire, ad un errore umano), ma al fatto che la deregolamentazione finanziaria e la nuova ingegneria finanziaria hanno cambiato radicalmente i meccanismi di funzionamento sia del settore sia dei mercati finanziari.

Negli Stati Uniti sono cadute le distinizioni tra banca commerciale, che raccoglie risparmio e concede crediti, e banca di investimento, che non può raccogliere direttamente il risparmio delle famiglie e che si finanzia quindi sul mercato monetario e su quello dei capitali e opera in settori di attività a maggiore rischio. La deregulation ha inoltre permesso la creazione di quello che viene chiamato il «settore bancario ombra», che sono gli Hedge Fund, le società di Private Equity e le società industriali, come General Motors o General Eletric, che hanno attività finanziarie di dimensioni spesso maggiori di quelle di una banca e hanno un notevole impatto sulla dinamica dei mercati.

Inoltre, la diffusione dei processi di cartolarizzazione (ossia della vendita sui mercati di pacchetti di crediti) e quella dei nuovi strumenti finanziari (derivati, ecc.) hanno alterato il funzionamernto degli stessi mercati. Quindi, sarebbe occorsa una riflessione se questi cambiamenti rappresentano un progresso oppure un regresso.

Nulla di tutto ciò: i provvedimenti prospettati vanno tutti nella direzione di sottoporli a qualche forma di regole e di sorveglianza. Ciò ha spinto persino George Soros, che sulla speculazione e non sulla creazione di ricchezza vera ha costruito le sue fortune, a bocciare il piano di Obama, come assolutamente insufficiente. George Soros ha scritto: «Non basta che i derivati vengano scambiati in un mercato regolato, ma occorre che l’emissione di questi strumenti e il loro commercio siano sottoposti ad una sorveglianza simile a quella che vige per i mercati azionari».

Inoltre il finanziere americano aggiunge: «Certi prodotti derivati, come i credit default swap, che servono solo ad aumentare i margini di profitto degli ingegneri finanziari che li creano, dovrebbero essere semplicemente vietati, poiché in realtà sono uno strumento di distruzione economica».

Le proposte americane sono all’acqua di rosa non solo sulle conseguenze della deregolamentazione e della nuova ingegneria finanziaria, ma anche sull’uso dei mezzi propri da parte delle banche e sulle remunerazioni nel settore finanziario. E’ convinzione diffusa che il capitale proprio delle banche sia una riserva a disposizione in caso di difficoltà dell’istituto. Niente di più lontano dalla realtà. Le banche usano il capitale proprio (ossia le proprie riserve) e addirittura si indebitano per speculare sui mercati.

Ad esempio, le perdite di UBS derivano da operazioni condotte dall’istituto con i mezzi propri. Le grandi banche che si sono mosse come se fossero state dei grandi Hedge Fund con i capitali propri, ricorrendo per di più pesantemente alla leva, speculavano e ancora speculano sui mercati. Questa prassi stravolge la logica delle norme che impongono requisiti minimi di mezzi propri per fronteggiare situazioni di crisi.

Le proposte sul tappeto sia in Europa sia negli Stati Uniti non sfiorano nemmeno questa questione, che è stato un fattore dirompente dell’attuale crisi. Altrettanto vale per le remunerazioni dei manager bancari che incitano all’assunzione di rischi nella consapevolezza che interverranno i cittadini attraverso gli Stati a pagare le eventuali perdite. Ciò vale pure per le agenzie di rating che hanno continuato ad assegnare la massima credibilità (ossia la tripla A) ad emissioni con cui venivano finanziate le ipoteche subprime americane.

Insomma, un quadro desolante, che conferma il potere del settore finanziario, cui sono già andati la più parte degli aiuti elargiti finora dai diversi Paesi. Le proposte ora fatte non risolvono i problemi. Nemmeno quelli delle banche che pensano di aver scampato il pericolo di una più severa regolementazione. Aggiustamenti cosmetici non servono a nulla. Il prosieguo di questa crisi, che si prospetta molto lunga, ce lo dirà con i fatti e costringerà a riformare in profondità non solo le regole di funzionamento del settore finanziario, ma anche quelle del sistema monetario internazionale.

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