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(WSI) – La crisi dei prestiti subprime non ha creato problemi solo all´economia mondiale e a milioni di risparmiatori. Sta cambiando anche la geografia del potere economico. Fino ad un anno fa tutti consideravamo i fondi di private equity una sorta di nuovo grande potere pronto non solo a comprare aziende di qualsiasi dimensione, ma anche a tentare di condizionare paesi, economie, settori industriali.
L´estate scorsa però è successo qualcosa che ha stravolto un trend che durava da almeno vent´anni. E´ successo che, partendo dall´esposizione in mutui subprime e cartolarizzazioni relative, molte banche hanno cominciato a guardare più attentamente il proprio portafoglio impieghi ed hanno realizzato che sul settore del private equity (prestiti a chi comprava aziende in parte con soldi propri ma in gran parte con soldi presi a prestito) c´era stata un po´ troppa disinvoltura. E hanno chiuso improvvisamente i rubinetti.
Dall´autunno scorso il numero delle operazioni di private equity è crollato. Si è praticamente salvato solo chi aveva una trattativa già molto avanzata ed era più complicato smontarla che portarla a termine, salvo spesso dover pagare tassi di interesse più alti. Da mesi però quelli che erano considerati una grande minaccia, mai neanche paventata in passato, sono tornati a dormire. Erano pronti, i fondi di private equity, a diventare i padroni del mondo, ma hanno dovuto fermarsi.
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Ma dove sono andati questi signori, dove sono finiti tutti quei soldi? Quei soldi sono ancora li, nelle loro casse, ma si è scoperto che ormai valgono assai poco, visto che di norma si devono mescolare a tanto debito per poter essere messi a frutto in modo adeguato. E´ come quelle formule chimiche dove, se non si combinano due componenti, non succede nulla. Il private equity classico, cioè quello dei grandi leveraged buy out (operazioni di acquisizione effettuate utilizzando la leva finanziaria, cioè i debiti con le banche che poi dovranno essere ripagati dai cash flows delle aziende acquistate) è diventato impotente di fronte al credit crunch che si sta manifestando in tutto il mondo: le banche non hanno più soldi.
E cosa succederà, che fine faranno tutti quei denari rimasti nelle casse dei fondi di private equity? Visto che è poco probabile che i gestori di questi fondi decidano di rimborsare i rispettivi investitori rinunciando alle commissioni che incassano da anni, la cosa più logica è che cambino parzialmente mestiere, cioè si rimettano a spendere e continuino a comprare società e pacchetti azionari, ma senza dover necessariamente far ricorso al debito. Faranno pertanto operazioni meno aggressive, più prudenti, anche se per loro meno lucrose.
D´altra parte era un po´ strano che i margini di quelli che sono stati chiamati barbari, locuste, talvolta avvoltoi, fossero enormemente superiori a quelli delle aziende e delle banche. Cioè di coloro che consentivano quei guadagni. A parte quello che faranno, gli strascichi che lasciano sul mercato sono, secondo alcuni, molto problematici: aziende con debiti altissimi e che in molti casi sarà impossibile ripagare, banche preoccupatissime di finanziamenti che – figli della disinvoltura di cui sopra – occupano una parte importante ed ingombrante dei loro bilanci e, fatto non marginale, dipendenti di società che si trovano all´interno di situazioni rese complicate e difficili da un´aggressività degli azionisti a cui non hanno potuto opporsi.
In generale poi si può notare come le società con azionisti che hanno privilegiato l´estrazione di liquidità alle prospettive future siano notevolmente più deboli sul piano tecnologico (carenza di investimenti in particolare nella ricerca e sviluppo di prodotti e processi), commerciale (timidezza nel marketing dovuta alla scarsezza di risorse finanziarie) e spesso anche sul piano manageriale perché comunque il privilegiare la finanza sui processi industriali non fa mai bene. D´altra parte se si vuole “mungere la mucca”, come insegnano i manuali di strategia, non si può aspirare a diventare delle super star dello sviluppo.
Però, analizzando alcune operazioni recenti, specie al di la dell´oceano, si vede che si starebbe per “saldare” una combinazione virtuosa, una nuova formula chimico-finanziaria: la liquidità dei fondi di private equity potrebbe essere utilizzata proprio per riempire i buchi nei bilanci delle banche attraverso la partecipazione alle cospicue ricapitalizzazioni che ogni settimana sono all´ordine del giorno (Ubs, Rbs, Citicorp, Barclays, Lehman, solo per citarne alcune) e che finora hanno trovato nei fondi sovrani (di proprietà di Stati esteri), oltre ad altre banche apparentemente più solide, il maggior investitore.
Insomma, qualche preoccupazione nel dare in mano ad arabi, russi, cinesi ed indiani dei pacchetti azionari di rilievo nelle principali istituzioni finanziarie del mondo comincia a serpeggiare e, tutto sommato, far intervenire dei fondi “amici” può essere più prudente. O comunque un argine. Con il risultato che il ruolo dei grandi operatori del private equity, malgrado le operazioni che hanno fatto e le conseguenze che hanno causato, continua ad essere molto importante. Forse anche più di prima: vanno a salvare le banche.
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