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(WSI) – Quando mesi fa gli chiesero cosa avrebbe voluto fare se non fosse più stato direttore del Financial Times , Andrew Gowers stette al gioco: «Cercherei di diventare seriamente ricco. Ma probabilmente – ammise – troverei qualunque altra cosa molto più noiosa di quel che faccio adesso». Da ieri però Gowers spererà di essersi sbagliato perché Pearson, il suo editore, lo ha messo alla porta. «Differenze strategiche», è la laconica spiegazione per uno dei cambi della guardia più bruschi nella storia del quotidiano color salmone.
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Esce Gowers, 48 anni, al vertice dal 2001, e da gennaio entra negli uffici londinesi di Southwark Bridge il cinquantenne Lionel Barber, finora capo dell’edizione americana. Qualcuno si stupirà: il nuovo leader arriva dall’estero in un giornale accusato da alcuni azionisti di essere diventato ormai troppo globale e non abbastanza locale, molto influente nel mondo ma meno incisivo di prima sugli affari della City di Londra.
Da Gowers in effetti Barber eredita un bilancio a due facce. In positivo certo c’è un’edizione americana da 130 mila copie vendute, salvata nel 2002 dallo stesso Barber e oggi capace di sfidare il Wall Street Journal sul suo territorio. C’è anche una nuova edizione asiatica da 35 mila copie. E soprattutto una versione da 130 mila copie che ogni mattina atterra su tutte le scrivanie che contano dell’Europa continentale, cresciuta grazie anche a tecniche spregiudicate: il giornale per lungo tempo fu regalato in ufficio a tutti i tecnocrati da un certo livello in su, a Bruxelles e nelle 25 capitali dell’Ue. Anche così l’ Ft fissa la gerarchia di cosa conta e cosa no da questa parte della Manica.
Ma se Gowers lascia a Barber, è perché è accusato di aver perso sul fronte interno. Dal 2000 le vendite in Gran Bretagna sono scese del 30%, eppure è lì che l’ Ft raccoglie il grosso delle entrate pubblicitarie; e il giornale sarà anche considerato il più autorevole al mondo, ma è in rosso stabile (perdite da 15 milioni di euro solo nel 2004) e solo quest’anno rivedrà il pareggio. Non è un caso se al vertice di Pearson in luglio è arrivato Glen Moreno, un americano digiuno di editoria ma navigato gestore di fondi speculativi. Gli azionisti dell’ Ft vogliono soldi, non influenza, e il titolo Pearson da tempo viaggia più lento della Borsa di Londra.
Barber adesso dovrà soddisfare loro e i lettori, e checché ne dicano gli scettici del «villaggio locale» della City, il profilo per riuscirci non gli manca. Paurosamente aggressivo sulle notizie, curiosissimo, conosce bene i mercati su cui si deve muovere la sua corrazzata. Negli anni ’90 da Bruxelles racconta il decollo dell’euro, a inizio anni 2000 è caporedattore a Londra, poi l’America. Per essere inglese, puro prodotto di Oxford dalle vocali in « received pronunciation » (l’accento dell’alta borghesia colta), se la cava fin troppo bene in francese e tedesco. Chi lo conosce scommette sulla sua vena «liberal», da centrosinistra anglosassone.
Barber ha anche incrociato spesso le vicende italiane, e non solo perché il gemello Tony è corrispondente dell’ Ft a Roma o perché lo si è visto spesso ai convegni italo-inglesi di Pontignano, con gli amici Giuliano Amato e Riccardo Perissich di Telecom.
In realtà di Italia lui si occupò quando il Paese puntava all’euro. A febbraio ’97 un suo articolo rivelò un piano tedesco per tenere Roma fuori dalla moneta fino al 2001: nelle prime ore di quel mattino, la lira perse colpi. Lo «scoop» era vero ma i mercati credettero che l’Italia ce l’avrebbe fatta lo stesso. E loro, insegna Pearson, sono più forti del Financial Times .
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