(WSI) – Sergio Marchionne è convinto che Chrysler possa salvare la Fiat da se stessa e dall’Italia: è una scommessa, ma non può farne a meno. È la tesi del settimanale londinese The Economist in edicola da oggi, che analizza il nuovo sbarco della casa automobilistica torinese sul mercato americano e i legami sempre più stretti tra il Lingotto e la società di Detroit.
Secondo il settimanale, il ritorno in Nord America presenta grandi rischi, considerando che la Fiat fu costretta ad abbandonare quel mercato 27 anni fa perché le sue automobili erano ritenute «di scarsa qualità». Oggi tuttavia, sottolinea The Economist, il rientro negli Usa potrebbe permettere a Fiat di trasformarsi da un’azienda europea di dimensioni relativamente contenute a un attore globale nel settore automobilistico.
Il mercato italiano è infatti troppo piccolo e poco competitivo per fornire al Lingotto le basi per una sopravvivenza nel lungo termine. La fusione con Chrysler porterà a una condivisione dei costi di sviluppo e tecnologici, ma Torino dovrà fare i conti con un’azienda moribonda.
In pratica Fiat, con l’operazione Chrysler, «lascia o raddoppia», sottolinea il settimanale britannico. Da un lato, c’è il rischio che il progetto della Fiat con Chrysler fallisca, com’è già successo alla tedesca Daimler (proprietaria del marchio Usa per nove anni); dall’altro, c’è la possibilità che con Chrysler la casa italiana diventi una vera e propria azienda internazionale.
Infine, fa notare The Economist, l’accordo con Chrysler indebolirà ulteriormente il rapporto tra Fiat e l’Italia. Per questo si tratta di un passo audace, ma probabilmente l’unico che le può garantire la sopravvivenza del gruppo automobilistico italiano che fa riferimento alla famiglia Agnelli.
Oggi intanto a Torino si terrà l’atteso incontro tra azienda e sindacati sul futuro dello stabilimento di Mirafiori. Le indiscrezioni parlano dei progetti di un nuovo Suv e di una linea per fabbricare vetture Chrysler che dovrebbero impegnare lo stabilimento piemontese nei prossimi anni.
Soprattutto però le attese sono di una riproposizione del modello Pomigliano, con la costituzione cioè di un newco ad hoc per riassumere gli operai con un contratto diverso rispetto a quello nazionale di Federmeccanica. Al tavolo non sarà presente l’amministratore delegato del Lingotto, Sergio Marchionne. A imbastire le trattative sarà Pietro Rebaudengo, responsabile delle relazioni industriali del Lingotto.
Sull’argomento si è espressa ieri con toni polemici anche Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. «Temo che il processo in corso sia lo spostamento della testa e delle sue decisioni negli Stati Uniti e non più in Italia», ha dichiarato Camusso, secondo cui i problemi di Fiat derivano da «un’assenza di politica industriale da parte del governo ma anche da scelte precise del gruppo». Sul futuro della casa torinese ha parlato, in un’intervista a Quattroruote, anche l’ex amministratore delegato del Lingotto, Vittorio Ghidella, ora ritiratosi in Canton Ticino.
Il manager ha ricordato che il rilancio della Fiat negli anni 80 fu possibile grazie alle pace sindacale che era stata raggiunta dopo la marcia degli 40 mila. Sull’attualità Ghidella ha auspicato il successo del legame con Chrysler, anche se l’intesa probabilmente comporterà un calo del peso della famiglia Agnelli nel nuovo gruppo automobilistico post fusione. «Mi auguro il successo di quest’operazione, che passa inevitabilmente attraverso accordi e, quindi, implica una rinuncia alla sovranità (degli attuali azionisti principali, ndr), a favore dello sviluppo della Fiat stessa», ha detto Ghidella.
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E se la Fiat abbandonasse i lavoratori italiani?
di Matteo Cavallito – Il Fatto Quotidiano
La salvezza del Lingotto sta nella fusione con Chrysler e nella diversificazione del mercato. Lo scrive l’Economist prefigurando per la casa torinese un futuro sempre più lontano dalla Penisola. Con buona pace dei lavoratori italiani.
(WSI) – La fusione Fiat – Chrysler rappresenta per la casa torinese una mossa rischiosa ma anche l’unica vera possibilità di salvezza da se stessa e dall’Italia. Lo scrive il settimanale inglese Economist nell’edizione in edicola oggi. Nell’articolo dedicato al Lingotto e intitolato “Fiat con Chrysler lascia o raddoppia” si sottolineano tutte le criticità della complessa operazione di accorpamento dei due costruttori ipotizzando per il gruppo guidato da Sergio Marchionne un futuro sempre più lontano dall’Italia.
La Fiat ha già acquistato il 20% del gruppo Chrysler ma le quote sono destinate ad aumentare fino al 35% aprendo la strada, in futuro, alla definitiva fusione. L’operazione comporta notevoli rischi anche a fronte degli elevati costi di ristrutturazione dei conti della casa americana (che sui 7 miliardi di dollari ottenuti in prestito dai governi di Usa e Canada paga interessi del 14% e del 20%), ma l’aggregazione potrebbe anche permettere alle due aziende di condividere la tecnologia e di ottenere quelle economie di scala capaci di permettere alla nuova creatura di rivaleggiare ad armi pari con i colossi del settore a cominciare da Volkswagen e Toyota. Una strada difficile, ma anche l’unica percorribile di fronte all’alternativa di una presenza eccessivamente concentrata su un mercato italiano “piccolo e poco competitivo per garantire una sopravvivenza a lungo termine”.
Finora la casa torinese sembra chiamata dunque a due sfide fondamentali. In primo luogo occorrerà non ripetere gli errori fatti in passato dalla Daimler che alla fine degli anni ’90 acquisì la Chrysler senza tuttavia riuscire a rilanciarla sul mercato. Il ritiro della società tedesca e la successiva cessione dell’azienda americana alla società di private equity Cerberus aprì la strada al fallimento del costruttore di Detroit, salvato all’ultimo momento dall’operazione Fiat con la sponsorizzazione di Washington. In seconda istanza, il Lingotto dovrà riuscire a imporsi su quel mercato americano abbandonato 27 anni or sono sotto la spinta del rifiuto espresso dai consumatori per la scarsa qualità delle vetture (l’acronimo Fiat, ricorda il settimanale britannico, fu ironicamente reinterpretato come “Fix it again Tony” – “aggiustala ancora una volta Tony” – per evidenziare i diffusi difetti dei veicoli).
In caso di riuscita le prospettive di successo sarebbero notevoli. Ma il trionfo dell’operazione potrebbe generare costi sociali notevolissimi per i lavoratori italiani. Secondo l’Economist, rivista tradizionalmente in linea con le dottrine di libero mercato, le perplessità già espresse da Marchionne sulla redditività delle operazioni condotte in Italia potrebbero tradursi in un progressivo abbandono degli impianti del Paese. “E’ facile immaginare – sottolinea il settimanale – che la Fiat possa lasciare appassire i propri impianti (in Italia – ndr) iniettando nuovi investimenti nei Paesi caratterizzati da una crescita delle vendite e da una produttività più alta”.
Le aree di interesse, cifre alla mano, sono facili da individuare. “In Italia – prosegue l’Economist – , 22 mila lavoratori distribuiti su cinque fabbriche producono ogni anno 650 mila automobili. Nella principale installazione Fiat in Brasile, appena 9.400 dipendenti ne realizzano 750 mila. L’impianto polacco fa ancora meglio: 6.100 lavoratori per 600 mila vetture”. Pur avendo recentemente negato l’intenzione di abbandonare la Penisola, Marchionne, conclude il settimanale, potrebbe sperimentare presto il suo “momento tatcheriano” decidendo di reagire con le cattive all’opposizione della Cgil, il sindacato che più di ogni altro ha comprensibilmente espresso contrarietà alle richieste di flessibilità sull’orario e gli accordi salariali
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