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FENOMENOLOGIA DELLA NUOVA DESTRA AMERICANA

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(WSI) – Ecco s’avanza una nuova nazione, la «nazione di destra», il cui conservatorismo è tale che persino uno dei maggiori pensatori conservatori, Edmund Burke, sembrerebbe un progressista. Una nazione che ama la patria, ma odia il governo, esalta l’individuo contro lo stato, preferisce l’ineguaglianza del singolo alla eguaglianza della collettività, e tuttavia si veste allo stesso modo, mangia le stesse cose negli stessi ristoranti, vive nelle stesse case uguali l’una all’altra e manda i propri figli nelle stesse scuole dove si insegnano le stesse cose.

Una nazione che esalta il progresso, ma come una manifestazione del divino. Che non disdegna la potenza, ma come strumento per difendere il proprio giardino dell’innocenza. E’ l’America del nuovo millennio, frutto di una tendenza di lungo periodo che viene a maturazione adesso. Un movimento più che un partito politico, un insieme di sconvolgimenti sociali, economici, territoriali, culturali, che hanno trovato nella presidenza di George W. Bush il potente catalizzatore e nell’11 settembre il battesimo del fuoco.

«The Right Nation» è il titolo del libro che fa discutere l’élite americana alla vigilia delle elezioni presidenziali. Right nel senso di destra, ma anche nel senso di avere ragione, perché la convinzione intima, inattaccabile, di essere nel giusto è la componente di fondo di questa onda conservatrice che ha conquistato gli Stati Uniti.

Il volume (450 pagine, pubblicato da Penguin Press) è scritto da due britannici, John Micklethwait e Adrian Wooldridge, entrambi dell’Economist, entrambi oxoniensi che si sono immersi con occhio critico e distaccato (ci tengono a sottolineare che non parteggiano né per la nuova destra né per la vecchia sinistra, né per i repubblicani né per i democratici), ma anche con passione nel «paradosso americano», con il quale volenti o nolenti dobbiamo convivere.

Quanto è nuova, o meglio in che cosa è nuova, questa destra? Naturalmente, non nasce oggi. E questo si sa. Il suo ispiratore è Barry Goldwater (e anche questo è noto), l’uomo che per primo ebbe il coraggio di sfidare il secolo progressista, quello cominciato con Teddy Roosevelt, maturato con il New Deal di Franklin Delano Roosevelt e proseguito con tutti i presidenti successivi fino a Richard Nixon (anzi, in fondo fino a Ronal Reagan). Il fervore anti-istituzionale di Goldwater conquistò anche giovani menti democratiche (Hillary Clinton lavorò per lui, i neocons cominciarono allora la loro lunga marcia). Sembrò una parentesi presto sconfitta, invece gettò semi che maturarono vent’anni dopo.

L’America di oggi è divisa nettamente in due. In questo, Micklethwait e Wooldridge concordano con Stanley Greenberg, l’ex guru di Bill Clinton. Una è l’America verticale, quella dei grattacieli, delle grandi aeree urbane, soprattutto concentrate nel nord-est, nel mid-west e nel sud-ovest. All’opposto c’è l’America orizzontale, quella delle edge cities, delle distese suburbane, e delle grandi pianure. La prima è democratica, la seconda è la culla della nuova destra. Ma la vera novità è che, secondo i due britannici, l’America verticale è in decadenza, quella orizzontale, invece, è diventata la nuova driving force.

Nessuno rappresenta meglio queste due Americhe di Dennis Hastert e Nancy Pelosi. Il primo è lo speaker repubblicano della Camera (il presidente diremmo noi), la seconda è la capogruppo dei Democratici. «Hastert, un massiccio ex allenatore di lotta libera, è uno senza peli sulla lingua e un conservatore senza se e senza ma: anti-aborto, anti-matrimonio dei gay, anti-Kyoto, pro-guerra in Iraq e pro-pena di morte. E’ stato eletto in un distretto, il 14esimo in Illinois che tra tutti i distretti «rossi» è il più scarlatto. Ha ottenuto un rating del 100% dall’American Conservative Union» (la lobby che definisce che cos’è un vero conservatore), la quale ha dato un misero 8% a Nancy Pelosi, eletta nell’ottavo distretto della California che coincide con San Francisco, il quale di tutti i distretti «blu» dell’America rappresenta il blu di Prussia.

Hastert è il tipico esponente dell’America orizzontale, la Pelosi dell’America verticale.
San Francisco è una città bellissima che fino a una dozzina di anni fa (quindi fino all’era Reagan) rappresentava il crogiuolo di tutto ciò che di più avanzato culturalmente, scientificamente, tecnologicamente l’America avesse prodotto dal secondo dopoguerra in poi.

Poi San Francisco ha cominciato a regredire. E’ invecchiata. La sua popolazione si è quasi dimezzata (oggi a poco più di 700 mila abitanti). Ed è composta per il 70% di single che vivono come i personaggidi «Sex and the city». La politica locale consiste nel difendere il più possibile il proprio stile di vita e il proprio benessere. Con il risultato che anche il benessere si è raggrinzito e Frisco oggi è piena di barboni che vivono in mezzo alla strada.

L’aristocratica città è diventata un misto di Calcutta e Carmel (la più chic località balneare sulla costa del Pacifico, a poca distanza da Big Sur, mecca di hippies ingrigiti e depressi).
St. Charles, nel 14esimo distretto dell’Illinois, all’opposto, è il regno della nuova middle class. Ha superato il declino, ha attraversato la terribile riconversione dalla monocoltura automobilistica ed è rinata a nuova vita. I contrasti sociali sono inferiori. Tutti hanno la loro casetta con giardino. Fioriscono le coppie e le famiglie numerose. Così come le chiese, sempre piene la domenica mattina per ascoltare il sermone del pastore che con parole taglienti come lame divide il bene dal male e il giusto dall’ingiusto, così come stabilito dalle scritture. A St. Charles la popolazione aumenta, si rinnova, è più giovane della media. Da lì, scrivono Micklethwait e Wooldridge, viene la nuova ricchezza dell’America e il consenso per il nuovo conservatorismo.

Il dualismo Hastert-Pelosi dà una chiara, icastica, rappresentazione delle due Americhe. E spiega perché oggi gli Stati Uniti che per cinquant’anni ci avevano insegnato che l’evolversi del capitalismo e della democrazia avrebbero ridotto non solo la frattura sociale, ma anche quella ideologica e politica, appaiono come un paese molto più radicalmente diviso di quanto non sia l’Europa, un tempo culla delle fratture e dei conflitti. Tuttavia, la tesi che l’America orizzontale sia diventata la nuova driving force è tutta da dimostrare. A cominciare dai suoi connotati economici.

Questa America sta producendo una crescita storicamente modesta (tra il 3 e il 4%), guidata da un consumatore cauto e incerto, senza nessuna vera innovazione tale da diventare la determinante del nuovo decennio. Dall’America verticale vengono i grandi calcolatori Ibm e la motorizzazione di massa, la rivoluzione finanziaria anima del reaganismo negli anni ’80, la rivoluzione informatica, anima del ciclo clintoniano negli anni ’90. Siamo ancora in attesa di capire che cosa definirà il bushismo: il complesso militar-industriale nella versione Bibbia e moschetto, non sembra possedere la stessa spinta propulsiva dei computer.

Hanno ragione, però, i due giornalisti dell’Economist a dire che la Right Nation sta dettando l’agenda per l’intera nazione. «Quel che colpisce di più – scrivono – è fino a che punto Bush ha ridotto il partito Democratico in un partito meramente anti-Bush: il partito della luna anziché del sole. Se Bush vince le elezioni, continuerà con una agenda radicalmente conservatrice, ridisegnando la sicurezza sociale, consolidando i tagli alle tasse, gettando più denaro nella potenza militare dell’America. Se vince John Kerry, sarà ridotto a cercare di ricostruire lo status quo ante, abolendo i tagli fiscali ai superricchi e aggiustando le relazioni internazionali (fino a un certo punto), ma in generale dovrà fare i conti con una agenda dettata dalla Destra».

Visto in retrospettiva, «il conservatorismo americano ha dalla sua parte sia la storia sia sociologia. Gli Stati Uniti sono sempre stati un paese conservatore, cresciuto nella religione, amante del business e ostile allo stato centrale». Tuttavia in questi anni è avvenuto un processo «quasi hegeliano. Prima sono arrivati i pensatori che hanno parlato dell’importanza del mercato e della religione. Poi le legioni di tagliatori di tasse e di cristiani evangelici che hanno dato voce a queste idee politiche».

Dal lato opposto, «il liberalismo americano, sia come corpo di idee sia come coalizione politica, è l’ombra di se stesso. Negli anni 60 i liberal agivano come se stessero rimodellando il paese. Tuttavia, la Great Society, con tutti i suoi indubbi benefici, ha fatto il passo molto più lungo della gamba, creando un contraccolpo populista. Oggi, il liberalismo americano si è frammentato in due rimasugli: una collezione di gruppi di pressione focalizzati su singole questioni (i sindacati degli insegnanti, gli abortisti, gli attivisti per i diritti dei gay, ecc.) e un coacervo di movimento di protesta gauchiste, furioso contro l’avanzata della Right Nation».

Possiamo convivere, noi europei, con questa America conservatrice? E come? Gli autori azzardano quattro suggerimenti: 1) colmare il fossato militar-industriale, cioè aumentare il potenziale difensivo e riprendere a crescere rapidamente, la distanza economica è aumentata dalla metà degli anni ’90, prima l’Europa e l’America erano pressoché testa a testa: 2) una maggiore ambizione in politica estera, dove prevale un conservatorismo del tipo «è meglio il diavolo che conosciamo», che spinge gli europei ad abbandonare ogni slancio ideale; 3) una riforma dell’Onu che lo renda adeguato a far fronte alla minaccia del terrorismo globale: «Gli europei debbono aiutare a creare un credibile meccanismo multilaterale per l’uso preventivo della forza»: 4) evitare che disaccordi politici nell’occidente diventino guerre economiche, con il rischio di contrapporre la Fortezza Europa alla Fortezza America.

Sono quattro «priorità» che non basteranno a ricomporre un contrasto diventato tanto radicale, ma possono consentire di gestirlo con minori tensioni, possono trovare terreni di compromesso. Per il resto, i due britannici non si fanno grandi illusioni. Lo tsunami della nuova destra non ha ancora spazzato via le coste. E, come il saggio Zen, bisogna mettersi al riparo aspettando che passi.

Bush, sottolineano gli autori, ha aggravato la situazione, commettendo una lunga catena di errori soprattutto legati alla guerra in Iraq. «La spaccatura nell’alleanza occidentale non era inevitabile. Dopo l’11 settembre Le Monde dichiarò “Adesso siamo tutti americani”. E la Nato invocò l’articolo 5, proclamando per la prima volta che l’intera organizzazione era stata attaccata, per vedere poi spazzata via la sua offerta di aiuto in Afghanistan». «Ed è significativo – proseguono – che la Rigt Nation provochi la più virulenta ostilità oltremare quando abbandona i fondamentali principi americani che essa stessa propaganda».

Tuttavia, «per tutti i problemi che provoca al resto del mondo, l’eccezionalismo americano è un motivo fondamentale del successo della nazione. Questo paradosso durerà tanto quanto la Right Nation stessa».

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