Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Se c’è un paese dove per lunga tradizione le
aggregazioni bancarie dipendono da elementi
personali, invece che da indici di redditività, dalle
relative sinergie dei piani industriali e dall’overlapping
di sportelli, servizi e personale,questo
è notoriamente l’Italia. Per via di quella caratteristica
dell’ordinamento italiano che nella vicenda
della doppia opa su Antonveneta e Bnl viene
definitivamente meno, l’amplissima discrezionalità
affidata alla Banca d’Italia nel dire
sì o no alle diverse eventuali ipotesi.
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Sembrano passati mille anni e
non cinque, da che Eugenio Scalfari
e Giuseppe Turani tuonavano
su Repubblica «basta coi
banchieri in confessionale
da Fazio», e ancora
più esplicitamente
aggiungevano: «Invocando
stabilità e
concorrenza, il governatore
dice stupidaggini
ed è impossibile che
non lo sappia. Semplicemente
le fusioni in programma
non sono quelle che gli piacciono e lui le boccia
». Si era all’indomani del doppio no di Bankitalia
sull’opa del SanPaolo su Banca di Roma e
Unicredit sulla Comit, e a dire il vero pochi mesi
dopo il governo D’Alema convocò anche un bel
Cicr in cui era annunciata la riscrittura dei poteri
di via Nazionale in materia di vigilanza e fusioni,
sulla scorta di un esplicito invito venuto dal
presidente Consob Luigi Spaventa in sede di audizione
parlamentare.
Tanto per ricordare le cose
come stanno: non è stato solo Giulio Tremonti
a cercare di cambiare regole
che sono un’anomalia tra i paesi
occidentali, e l’errore della sinistra
è stato di dimenticarlo
quando era lui al Tesoro.Perché
una bella convergenza parlamentare
allora sulla redistribuzione
dei poteri di vigilanza
avrebbe di sicuro evitato oggi la
delegittimazione complessiva
che avviene con le intercettazioni
e i sequestri disposti dai
pm, con Bankitalia trascinata
nel fango e la stessa Consob imbarazzata
per le autorizzazioni
alle opas e opa obbligatoria della
Popolare Italiana che prima
ha regolarmente dato, e oggi
viene invitata del tutto irritualmente
a congelare.
Ma non c’è solo l’elemento
politico. Anzi, forse è del tutto
secondario. Sappiamo bene che
è considerato poco fine parlarne
apertamente, e che a tutti i
banchieri tocca negarlo in pubblico
quando interpellati, come
fece una volta Matteo Arpe a
una presentazione dei risultati
di Capitalia. Ma in questa vicenda
più che mai Antonio Fazio
paga forse una scelta di vita,
più e prima che di sistema.
Da una parte c’è Cesare Geronzi, il grande e indiscusso vincitore di
vent’anni di consolidamento bancario italiano,
per il governatore un vero e proprio «fratello
maggiore» prima che amico bronzeo, stante i
vent’anni passati insieme in Bankitalia, laddove
il ragioniere non laureato dei Castelli romani riuscì
a dirigere la sala cambi di via Nazionale e Beniamino
Andreatta ironizzava affermando che
era proprio lui a importare in quella veste l’inflazione
in Italia. Dalla Cassa di risparmio di Roma
al primo grande polo romano sotto Andreotti,
al secondo balzo in avanti eludendo la stretta
postagli da Craxi, sconfiggendo le diverse formule
di privatizzazioni che tentarono Prodi e
Amato, Geronzi ha sempre avuto da
Fazio quanto ha voluto, in cambio
del fatto che il suo istituto svolgeva
per conto del governatore la funzione
di grande «ripulitore» delle stalle
di Augia del mondo bancario italiano,
ma ottenendo anche in cambio il
sistematico consenso a nuove acquisizioni,
nei cui asset patrimoniali
affogare di volta in volta sofferenze
romane e free capital negativi.
E’ alla forza aggregante
di Geronzi, più che a ogni altra cosa,
che Fazio deve la vittoria su Cuccia prima, Maranghi
poi e Tremonti infine. Anche se qualcosa
si incrinò, quando colpito dalle indagini per
Cirio e Parmalat Geronzi disse «sparano a un
passero, ma mirano al piccione», dove il piccione
rimproverato di non spiegare abbastanza le
sue ali protettive era proprio il governatore.
Dall’altra parte c’è Gianpiero Fiorani, l’amministratore
delegato della Popolare di Lodi ora
Italiana che negli anni Novanta ha in fondo indossato
sulle proprie spalle
analoghe vesti di grande federatore,
ottenendo da Fazio il
consenso a una ventina di successive
acquisizioni, dal Banco
di Chiavari all’Iccri, da Efibanca
alla Popolare di Ferrara e
Rovigo, da quella di Forlì alle
Casse di Lucca, Pisa e Livorno,
fino alle Popolari di Crema e
Cremona, a Royal Sun&Alliance
e ad Arca.
Solo che il fresco
poco più quarantacinquenne
lodigiano doc interpreta
tutt’altro versante della storia
bancaria italiana. Ha ottimi
amici in politica. Ma in realtà la
vera forza di Fiorani sta nel disinvolto
dinamismo con cui ha
imbarcato, coinvolto e assistito
decine di imprenditori e finanzieri,
nella lunga serie di talora
arditi aumenti di capitale ai
quali negli anni è dovuto ricorrere
per fronteggiare acquisizioni
tanto numerose, e talora a
prezzi considerati azzardati.
Non solo quei nomi a rischio
come i Tanzi che Capitalia ha
tanto spesso condotto per mano
a fianco dei Cragnotti, ma
nomi come Barilla, Gavio, Ligresti,
Bormioli. E poi Garavoglia, e centinaia di
medi e piccoli imprenditori padani,
e quel Chicco Gnutti che, a cavallo
dell’azionariato Bpl, Antonveneta
e Bnl, è un po’ il faro acceso
a nome di tanti tipi svegli del
Nord nelle vicende bancarie centro
italiane, se mai ci scappasse un
buon affare tra Padania, Roma e
Siena. Mica è un caso, si siano ben
intesi con Consorte e la sua solida
Unipol su Bnl.
Chi conosce il governatore
Fazio ha sempre respinto
l’immagine altera che gli viene
dipinta addosso. Al contrario,pensa
che Fazio – gran teorico della
moneta ma un po’ a disagio a trattare
gli uomini, nella sua parca timidezza
– nella lunga stagione in
cui era Geronzi il suo gran primo
consigliere, avesse di fatto finito
per assumere alcuni degli aspetti
della proverbiale durezza del banchiere
romano. Per capirci, l’asprezza
con cui rispose alla commissione
parlamentare, quel 28
gennaio 2004, che certo non era
ipotizzabile «un ministro qualunque
» chiedesse nel Cicr informazioni
riservate sulle cartolarizzazioni
sospette proprio di Capitalia:
e il ministro qualunque era naturalmente
Tremonti.
La caratteristica di Fazio,l’assumere
cioè qualcuno dei tratti
stessi di chi gli sta più vicino, continua
chi lo conosce, finisce per
non indurre allo stupore oggi, se
avendo scelto Fiorani emerge in
lui una disinvolta esuberanza e
una familiarità fuori dagli schemi,
sì proprio le premesse per
quel «bacio in fronte» delle intercettazioni
che reato non è, ma a
Fazio ora in tanti intendono far
pagare come una caduta di stile
insopportabile per un regolatore
«terzo e imparziale».
Certo Geronzi puntava dall’anno
scorso a una maxi aggregazione
a tre, Capitalia-Antonveneta-
BPL. Pensando di replicare
su Fazio lo stesso colpo di mano
che nel 2001 gli valse la conquista
romana di BiPop-CaRiRe. Fiorani
restò allora malissimo. Allora,
si posero le premesse per la sfida
all’ultimo sangue odierna. Perché
devo crescere solo finché non
faccio ombra a Capitalia? Questa
la sua domanda. Da allora, il rapporto
con Fazio da stretto è divenuto
strettissimo. E anche con la
famiglia Fazio nel suo insieme,
mentre si allentava quello tra la
famiglia Fazio e quella Geronzi.
Tanto che oltre un anno e mezzo
fa furono i coniugi Carraro, a tentare
una grande cena di riconciliazione,
con Cossiga, i coniugi
Fazio e i Geronzi.
Per mesi prima di lanciare l’attacco,
Fiorani incontrò i vari Fratta
Pasini della Popolare di Verona e
Novara, i Maramotti proprietari
del Credem, tutti i banchieri del
Nord eventualmente interessati a
condividere la sfida all’Ok Corral
di Capitalia. Alla fine Fiorani ha
puntato al piatto padovano da solo
e con chi ci stava,“i concertisti”,
ma a nome del nord e fuori dalle
ipoteche di una politica romana
troppo ingombrante, nel passato
di Geronzi. Di finire “aggregato”
nei crepacci patrimoniali del bilancio
della banca romana non gli andava
proprio.
Ha l’età dalla sua, soci
di rilievo e incroci finanziari che
a Roma mancavano, anche se questa
è assista al grande tavolo di
Mediobanca. Perché non pensa
appunto a piazzetta Cuccia, Geronzi,
per concludere la sua carriera,
si chiedeva Fiorani?
Nel gennaio 2004, quando alla
commissione d’indagine parlamentare
sui casi Cirio e Parmalat
Geronzi finì interrogato dai parlamentari
incalzanti – visto che la
Procura romana lo indagava per
bancarotta preferenziale – sembrò
che la stessa del banchiere romano
fosse sulla via del tramonto.
Da allora,
è lui che si è ripreso mentre
Fiorani che sembrava ormai vittorioso
è finito nelle peste delle Procure,
insieme al governatore. A Fazio
è toccata una amara scelta. Personale,
appunto, prima che industriale.
Decidere se abbia ragione il
partito di Fiorani, che con Kafka
sussurra a proposito di Geronzi
che la maggior parte dei vecchi ha
qualcosa di menzognero e malfido
nei confronti dei più giovani. O se
invece prevalga il partito di Geronzi,
che con Balzac ripete che la
differenza tra vecchi e giovani sta
tutta qui, che i secondi non osano
guardarsi allo specchio, quando inclinano
dalla parte dell’ingiustizia.
Ci sarà chi pensa che sono i ratios
patrimoniali a fare la differenza.
Ma non è vero. A Roma, poi, sono
contati sempre assai poco. Sono gli
uomini, a far la differenza.
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