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FALCONI REPORT – I GUAI DEL SETTORE FARMACEUTICO

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ROCHE RAGGIUNGE ACCORDO CON IL GOVERNO DEL BRASILE – Il gigante farmaceutico svizzero Roche Holding ha raggiunto un accordo con le autorita’ sanitarie Brasiliane per un’ulteriore riduzione del 40% del prezzo del farmaco anti-AIDS Viracept, mettendo la parola fine alle minacce del governo di infrangere il brevetto e produrre il farmaco in Brasile. (dal New York Times, Sabato 31 Agosto)

BAYER ATTENZIONE – Ai primi di questo mese [agosto] il gruppo chimico e farmaceutico tedesco Bayer ha annunciato l’immediato ritiro dal mercato del suo farmaco anti-colesterolo Baycol, a causa di effetti collaterali collegati a 52 decessi. ….Il 13 agosto il Presidente della Bayer, Manfred Schneider, ha annunciato che il gruppo ….. potrebbe prendere in considerazione …. [anche] una vera e propria vendita [delle proprie attivita’ farmaceutiche]. (da Economist, 18 Agosto 2001)

Un bel voltafaccia per un settore farmaceutico ritenuto, sino a poco fa, “a prova di recessione” (tanto la gente si ammala ugualmente), porto sicuro per investitori scottati dalla New Economy e dal disastro delle telecom. Sono nubi che si vanno addensando rapidamente, e che si aggiungono alle preoccupazioni per la crescente quota di mercato dei cosiddetti “generici”, farmaci che sono (o dovrebbero essere) la copia esatta di quelli di marca, ma, essendo disponibili a prezzo scontato, sono favoriti dai sistemi assicurativi di vari paesi (compresa da poco anche l’Italia, come si sa).

Vediamo di fare un po’ di luce sulla vicenda. Tutti sanno, prima di tutto, che quella farmaceutica e’ un industria che richiede investimenti enormi e decenni di ricerche dai risultati incerti. Per ogni farmaco di successo ce ne sono decine che non arrivano mai alla commercializzazione, e le case abitualmente ricaricano questi costi sui loro prodotti. E, come tutti sanno, si tratta di costi ingenti: un “cocktail” di medicine per la cura dell’AIDS, per esempio, puo’ costare oltre $ 10.000 al giorno.

In altri settori, il produttore che voglia differenziare il prodotto “di marca” e giustificarne il prezzo elevato di solito fa ricorso a tre elementi fondamentali:

1) La difficolta’ per i rivali di riprodurre caratteristiche tecniche e processi produttivi coperti complessi e spesso coperti dal segreto professionale (pensate alla famosa formula della Coca Cola, difesa da piu’ di un secolo con precauzioni degne di 007).
2) La differenziazione estetica (styling, confezione, marchio, ecc.)
3) Le barriere offerte dai brevetti, che rendono illegale copiare il prodotto protetto per la durata del brevetto.

Nel settore farmaceutico, pero’ i primi due fattori non sussistono: una medicina, infatti, conta soltanto per la sua efficacia, non per l’apparenza o per la confezione, e la sua composizione chimica e’ di immediato dominio pubblico, dal momento che i medici e le autorita’ sanitarie di ogni paese devono esserne a perfetta conoscenza sin dai primi test sui pazienti antecedenti la messa in commercio.

Non resta dunque che la protezione offerta dal diritto internazionale dei brevetti. E infatti per decenni l’industria farmaceutica ha sfruttato questa protezione per mantenere elevato il prezzo dei suoi farmaci piu’ importanti: troppo elevato, secondo alcune organizzazioni di tutela dei consumatori, oppure elevato quanto basta a garantire un modesto profitto dopo il recupero dei costi di ricerca, come sostiene l’industria stessa. E’ pur vero che i farmaci cosiddetti generici, copie chimicamente identiche all’originale ma non gravate dei costi di ricerca, sono presenti da decenni sui mercati avanzati come quello americano. L’impatto sui profitti delle grandi case e’ pero’ rimasto modesto, perche’ sino ad ora il produttore generico ha sempre dovuto attendere la scadenza del brevetto. A quel punto il produttore originale ha presumibilmente pronto un nuovo prodotto per la cura di un’altra malattia, e cosi’ il ciclo si ripete.

O per meglio dire, si ripeteva. Le cose sono infatti cambiate radicalmente con la scoperta di farmaci efficaci contro l’AIDS. Questi farmaci sono stati messi inizialmente in commercio in tutto il mondo a prezzi altissimi, seguendo il modello tradizionale del recupero dei costi di ricerca. Senonche’ mentre le economie avanzate hanno potuto assorbire i costi, quelle del terzo mondo, dove la diffusione della malattia e’ ancora piu’ grave, sono state messe in ginocchio. Pensare di assorbire un costo di migliaia di dollari per paziente al giorno in nazioni dove il reddito medio pro capita e’ di poche centinaia di dollari all’anno e’ infatti impossibile.

I produttori hanno per la verita’ praticato sconti anche ragguardevoli: in Brasile, per esempio, gia’ prima dell’accordo citato dal New York Times il farmaco Roche era in vendita a circa la meta’ del prezzo negli USA. Ma e’ come vendere una Rolls Royce col 50% di sconto: la stragrande maggioranza non se la puo’ permettere, neanche a meta’ prezzo. E cosi’ alcuni governi di paesi emergenti, primo tra tutti il Sud Africa dove l’AIDS ha proporzioni pandemiche, hanno cominciato ad invocare una oscura, ma valida, clausola del diritto internazionale che consente ai governi di concedere una “licenza obbligatoria” (“compulsory licence” in Inglese) in casi di assoluta emergenza nazionale. Secondo questa clausola, il beneficiario della licenza obbligatoria, tipicamente un produttore locale, e’ esentato dal pagamento di royalties al detentore del brevetto (tranne una modesta somma a titolo “nominale”) ma ha l’obbligo di mettere in commercio il prodotto ad un prezzo tale da coprire soltanto il costo di produzione ed un modesto profitto. Dato che il “generico” cosi’ autorizzato non ha dovuto investire nella ricerca scientifica, il prezzo del farmaco risulta alla portata di tutti.

Immediatamente altri paesi hanno seguito l’esempio del Sud Africa. Il Brasile, per esempio, gia’ nel marzo scorso ha giocato la carta della “licenza obbligatoria” con il colosso americano Merck, detentore di un altro brevetto per un cocktail anti-AIDS, ottenendo uno sconto del 60%. Nel caso della Roche, lo sconto e’ addirittura del 70%. Da notare che nessuna di queste nazioni si e’ spinta oltre la minaccia: le conseguenze sul piano internazionale sarebbero probabilmente troppo gravi. Il bluff, pero’ e’ servito benissimo al tavolo delle trattative: segno evidente della debolezza dell’industria.

Quali saranno le conseguenze per l’industria farmaceutica ? Prevedo prima di tutto una estensione a macchia d’olio degli sconti anche nei mercati “evoluti”, primo fra tutti quello nordamericano, con conseguente forte contrazione degli utili. E’ difficile, infatti, che i pazienti e le assicurazioni americane tollerino di pagare il 70 % o piu’ per un farmaco. Questo portera’ all’uscita dal mercato dei produttori piu’ deboli (vedi il caso della Bayer citato qui sopra), e alla consolidazione degli altri. E’ anche probabile che i maggiori produttori saltino sul carro vincente, ed assumano una presenza, piu’ o meno forte, nel mercato dei generici.

Alla base, pero’, rimane il problema dell’ammortamento dei costi di ricerca (e dei costi di azioni legali connesse a decessi): nella peggiore delle ipotesi potrebbe ridursi la ricerca scientifica, nella migliore si trovera’ un altro modello di sviluppo e ripartizione dei rischi. Gia’ oggi, per esempio, una azienda come la Millennium svolge ricerca scientifica per conto di societa’ farmaceutiche. In questo modello il committente conserva il diritto di introdurre sul mercato i farmaci che appaiono piu’ promettenti, pagando alla Millennium i soli costi di ricerca. Se un farmaco e’ scartato, pero’, la Millennium ne acquista la proprieta’ intellettuale, e puo decidere di commercializzarlo, assumendosene il rischio ma anche il potenziale guadagno. Ci sono infine sforzi congiunti dell’industria farmaceutica e dell’ONU per la creazione di un fondo internazionale cui i paesi in via di sviluppo possano attingere per il pagamento dei farmaci essenziali.

In ultima analisi, il nuovo modello economico sara’ probabilmente un ibrido. In ogni caso, dovranno passare anni prima che la situazione si stabilizzi, e non saranno anni facili: e’ pur vero che la gente si ammala anche durante una recessione, ma resta anche vero che deve in qualche modo essere messa in grado di pagare la cura.

* Stefano Falconi e’ direttore finanziario del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Cambridge, Massachussets.