*imprenditore, amministratore delegato Aermec ex presidente di Assindustria Verona. Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Sto seguendo, con attenzione e apprensione, la vicenda legata alla proposta di legge finanziaria e non so se definirmi solo amareggiato o anche arrabbiato. E sono arrabbiato non tanto per essere stato catalogato nella categoria dei «ricchi» o dei «veneti tartassati» ma perché mi sento, soprattutto, un imprenditore preso in giro.
La mia famiglia, da anni, combatte una dura battaglia per mantenere competitive le nostre imprese e per restare non solo con la testa ma anche con la struttura manifatturiera nel nostro Paese. Da sempre io sostengo che impresa e territorio sono cresciuti insieme e che molti di noi vorrebbero continuare a fare impresa là dove sono partiti, perché credono fermamente che il loro ruolo sia quello di dispensare benessere nelle comunità locali.
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Da sempre ho cercato di capire le ragioni degli altri e, anche in questo caso, ho cercato un possibile senso della manovra sul Tfr da destinare forzosamente all’Istituto di Previdenza; ma ho fatto anche un po’ di conti e ho constatato che il versamento del Tfr all’Inps drenerà un consistente flusso di cassa e questo inciderà negativamente sugli investimenti programmati; ho capito che si tratta di uno scippo di denaro che non appartiene allo Stato ma al lavoratore e all’impresa che lo custodisce.
E allora sono giustamente arrabbiato e deluso di fronte a un provvedimento che definirei di ottuso dirigismo e che ha la sola logica di abbattere il deficit dell’Istituto di Previdenza, senza prospettive di vero risanamento. Il problema, quello che nessuno vuole affrontare seriamente, è una drastica diminuzione della spesa pubblica. Purtroppo mi rendo anche conto che questa è un’utopia perché troppo pochi nel Palazzo vogliono realmente, al di là delle solite dichiarazioni di buoni propositi, aprire un serio discorso sul fatto che spendiamo troppo per gli apparati pubblici e per sostenere un sistema di welfare che oggi non possiamo più permetterci.
L’aspetto tragico è che, storicamente, abbiamo costruito – atto di pura follia – un falso benessere su un debito pubblico smisurato, dando spazio alle rivendicazioni di mille gruppuscoli e mille corporazioni, creando una palude di interessi che nessun politico ha il coraggio di prosciugare. E allora la strada che si preferisce scegliere, di fronte ai tanti che strillerebbero se si toccasse il loro spazio nella palude, è alzare le tasse e fare cassa colpendo le imprese, per definizione considerate le mucche da mungere anche se di latte ormai non ne hanno più.
Ma, rispetto al passato, oggi si sono scatenati slogan per cui «anche i ricchi devono piangere» e dichiarazioni favorevoli a «salvare» solo le piccole imprese come se i flussi di cassa non valessero per tutti e se lo scippo a danno delle grandi e delle medie avesse un valore diverso da quello operato per le piccole. Stiamo veramente assistendo al trionfo della più cieca demagogia e del peggiore populismo. Stiamo scendendo un altro scalino nella scala che ci porta al declino e il risultato di questa manovra, se passerà così com’è, sarà quello di creare ancora più sconcerto e disorientamento tra gli imprenditori. È proprio un bel risultato!
Per questo le organizzazioni imprenditoriali sono chiamate oggi a precise scelte di campo e devono saper puntualizzare, in modo forte, il valore di una cultura dello sviluppo fondata sulla concorrenza, il merito e l’assunzione di responsabilità. Io – e so che in tanti mi considerano un moderato – sono convinto che vi sono dei momenti in cui è necessario farsi sentire in modo diverso.
Per questo, più che andare in piazza come molti colleghi vorrebbero, faccio una proposta perché mentre il Sindacato può proclamare scioperi, l’imprenditore invece non può arbitrariamente chiudere l’azienda. Da noi non c’è il diritto di serrata, ma mi sentirei in modo simbolico di suggerire ai colleghi un giorno di protesta attraverso una «serrata virtuale»: rinunciamo a produrre per un giorno pur pagando la giornata ai nostri collaboratori.
Loro non ci perderebbero niente e noi almeno otterremmo il risultato di togliere al Pil del Paese una giornata di lavoro e di reddito per le imprese, provocando un minore introito fiscale. Forse, solo così, un ceto politico illusivo incomincerà a capire che, se non ci sono imprese che producono non c’è ricchezza da distribuire. Con buona pace dei populisti e dei demagoghi.
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