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EVASORI DI PANNA MONTATA

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(WSI) – Uno dei pezzi più celebri di Eugenio Scalfari s’intitolava: “L’Avvocato di panna montata”. Uscì sull’Espresso del 28 luglio 1974 e pestava duro su Giovanni Agnelli, in quel momento presidente della Fiat e di Confindustria. “Barbapapà” era incavolato nero con lui perché aveva deciso di vendere la propria quota del Corriere della sera ad Angelo Rizzoli. Chi non conosce, o non ricorda, le vicende dei giornali di quel tempo, si domanderà: ma che problema c’era?, anche “Angelone” era un editore, e ben più di Agnelli.

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Ma il problema esisteva. A giudizio di Scalfari, dietro Rizzoli si stagliava l’ombra minacciosa di uno dei potenti della Repubblica: Eugenio Cefis, il capo della Montedison. Eugenio lo riteneva un tipo pericoloso per la libertà di stampa in Italia. E aveva ingaggiato con lui un duello infinito. Scoprire che Cefis si mangiava il “Corrierone”, sia pure per interposto Rizzoli, lo mandava fuori dai fogli.

La conclusione del pezzo di Scalfari venne imparata a memoria da noi della truppa informativa che vedevamo in Cefis un Hitler della carta stampata.

Dopo aver descritto l’Avvocato come un signore volubile che, per non annoiarsi, andava da una passione all’altra, Eugenio vergò la sua epigrafe.
“La vera sfortuna di Agnelli” scrisse, “è quella di vivere in un epoca in cui vince chi ha il sedere di pietra. Cefis, basta vederlo, appartiene a quella razza. L’Avvocato è infinitamente più simpatico e piace di più proprio perché è fatto di meringhe e di panna montata”.

Caspita, che botta! Ma Agnelli, da vero monarca, non se la prese. E i rapporti tra lui e Scalfari non si guastarono. Un legame forte li univa: Carlo Caracciolo, socio di Eugenio e cognato dell’Avvocato, in quanto fratello della moglie Marella. E poi i due erano fatti per piacersi: entrambi primi della classe e famosi, sia pure in modo diverso.

Me ne accorsi quando dal Corriere passai a Repubblica. Nell’estate del 1980, dopo l’assassinio di Walter Tobagi, ci rendemmo conto che Scalfari poteva diventare un obiettivo delle Brigate rosse. Eugenio non aveva paura di niente. Al punto di andare e venire dal giornale su una scassata Cinquecento, senza l’ombra di una scorta. Fu allora che Caracciolo chiese ad Agnelli di mandarci il capo della sua sicurezza perché ci dicesse quel che si doveva fare.

Arrivò a Repubblica un ex colonnello dei carabinieri, vestito come un milord. Ascoltò annoiato la descrizione delle nostre giornate di lavoro: tutte eguali, scandite da orari immutabili. Il milord ci spiegò che questo sistema di vita non andava bene per niente. Dovevamo fare come l’Avvocato che si “randomizzava”, ossia viveva a caso. Una notte dormiva a Villar Perosa. Un’altra a Roma. La terza a New York. La quarta a Tokyo. La quinta chissà dove. Scalfari replicò: «Impossibile. Noi stiamo sempre qui perché abbiamo la bottega da curare e i clienti da servire».

La gelida conclusione del milord fu una sentenza senza appello: «Se è così, cari signori, siete indifendibili!». Però Caracciolo non si diede per vinto. Chiamò il cognato e Agnelli ci mandò un’automobile blindata, una delle prime. Era una Fiat targata Cuneo. La targa sembrava uno scherzo. Però ci spiegarono che la blindatura veniva fatta in un’officina di quella provincia, mi pare fosse a Savigliano.

Eugenio si sentiva prigioniero della blindata. Tuttavia la sofferenza durò poco. La blindata targata CN, in quel momento senza passeggeri, nei pressi di via Veneto si scontrò con un autobus dell’Atac, per fortuna anch’esso vuoto. E lo perforò da parte a parte, neanche fosse un siluro.

Bei ricordi, di quando l’Avvocato era l’Avvocato, sia pure di panna montata. Adesso stiamo scoprendo che pure lui, forse, aveva il sedere di pietra: quello robusto, robustissimo, degli evasori fiscali. Non so dire come finirà questa storia dei due miliardi di euro, quasi quattromila miliardi delle vecchie lire, nascosti nella panna montata svizzera. Ma un suo triste e solitario finale s’intravede già.

È la caduta di un mito. Il crollo di un idolo. Il crack d’immagine dell’unico re d’Italia sopravvissuto ai Savoia. Ai giovani di oggi, questa disfatta non dirà nulla. Loro, se va bene, conoscono soltanto i suoi nipoti: John e Lapo Elkann, figli di Margherita, figlia dell’Avvocato. Ma per noi italiani con i capelli bianchi è tutta un’altra faccenda: che dolore!, che disfatta! Il grande, grandissimo Gianni messo sullo stesso miserabile piano di tanti riccastri qualunque, pare siano 170 mila, che hanno inguattato i conquibus in Svizzera per sottrarli al fisco italiano.

Mia madre Giovanna non avrebbe battuto ciglio. Era solita dire: «I ricchi nascondono i soldi per non doverne dare un po’ ai poveri». Lo stesso diranno i vecchi della sinistra italiana che non si fidavano dell’onestà fiscale dei padroni della Fiat. Sfogliando il mio archivio, ho ritrovato un articolo dell’Unità, datato Torino e scritto da Diego Novelli il 13 settembre 1970. Cominciava così: «La scandalosa vicenda delle imposte della famiglia Agnelli sarà discussa anche in Parlamento…».

Ma adesso è arrivato un osso da mordere: Giulio Tremonti, ministro dell’Economia del governo Berlusconi. Se riuscirà davvero ad aprire l’epoca del Terrore per chi si serve dei paradisi fiscali, tutti gli italiani onesti, a cominciare da me, glie ne saranno grati.

Vada avanti, caro ministro. Certo, non potrà usare la ghigliottina. Ma obblighi i furboni a sudare sangue. Alla faccia dei tanti evasori che ci sfottono di continuo: «Paga e soffri, contribuente fesso!».

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