Il 57 per cento dei capi di abbigliamento venduti nei negozi europei non rispetta le prescrizione di legge relative alla composizione fibrosa del tessuto e circa il 40 per cento di prodotti tessili venduti sul mercato europei non ha nessuna indicazione sulla provenienza. È l’allarme contenuto da uno studio presentato a Bruxelles dall’Italian Texile Fashion (Itf), organismo delle Camere di Commercio italiane per la moda. Non solo, l’indagine avverte che il 9,5 per cento dei capi venduti contiene ammine aromatiche cancerogene, sostanze nocive alla salute dell’uomo proibite dalle direttive europee, e, infine, nel 6,5 per cento c’è assenza di criteri ecologici. I risultati dell’indagine realizzata ad Amsterdam, Barcellona, Francoforte, Parigi e Stoccolma rileva inoltre che solo il 3,2 per cento dei vestiti contiene un’etichetta che dichiara il “made in”, mentre il 36 per cento non fa riferimento alla produzione e il restante 60 per cento indica una provenienza da Paesi extra-Ue. In quest’ultimi poi la percentuale di capi non conformi alle direttive cresce di quasi l’11 per cento, raggiungendo il 68,5 per cento. “Le cifre presentate – commenta il ministro per il Commercio internazionale e le Politiche europee, Emma Bonino – sono una motivazione in più perché si trovi una soluzione in Consiglio europeo per quanto riguarda la proposta di rendere obbligatorio il “made in”, come previsto in Usa, Giappone, Cina e Canada. “Il consumatore europeo è indifeso – commenta il presidente di Itf, Luca Mantellassi – così come non è tutelato chi non produce con trasparenza. Il made in obbligatorio e un sistema di controlli più efficace – spiega – sono necessari per la tutela dei consumatori e la salvaguardia della competitività delle imprese che operano nel pieno rispetto delle regole” e per questo “miriamo ad arrivare a una regolamentazione del Consiglio europeo che renda obbligatorio il made in”. Si tratta, conclude Mantellassi, di un elemento di “forte democrazia che permettere al consumatore di fare una scelta consapevole”.