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(WSI) – E’ sorprendente la reazione dei commentatori italiani alla debacle francese dell’europeismo. E’ la reazione di sempre: brutto colpo, ma bisogna andare avanti. E giù proposte – da Romano sul Corriere a Spinelli sulla Stampa – su come si possa aggirare la bocciatura francese: facendo finta di niente, spaventando i francesi con lo spettro di rimanere fuori, appellandosi a un codicillo che dice che, se alcuni paesi trovano «difficoltà nel processo di verifica», gli altri possono decidere di continuare.
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Definire una «difficoltà nel processo di ratifica» il voto massiccio della Francia, praticamente il cuore, il polmone e il cervello della stessa idea europeista, è veramente un eufemismo. Vige sempre la vecchia metafora della bicicletta: la Ue che va a due ruote e se si ferma cade. Ma ormai è un Tir a venticinque ruote, e se lanciato a precipizio va a sfasciarsi.
Nessuno che dica: ci doveva essere qualcosa di sbagliato, se i francesi l’hanno rifiutato. Come si fa a non sentire la fatica di un processo che dura da troppi anni, prima Amsterdam, poi Nizza, poi Roma, poi i referendum, sempre alla ricerca di una cabala istituzionale che tenga in piedi un progetto nato quando si era in sei, con ambizioni sovranazionali che la maggioranza delle nazioni europee rifiuta. O un’autocritica sul carattere elitario della costruzione europea, che si scontra sempre più spesso con popoli scettici, delusi, quando non apertamente contrari.
Da tempo, da troppo tempo, l’Europa ha perso la sua immagine di convenienza, di opportunità, per diventare una cosa complessa e difficile da comprendere, quando non costosa, quando non una camicia di forza fatta di soli vincoli.
Qualche tempo fa suggerimmo alla sinistra italiana, con un titolo un po’ forte, che «la bandiera dell’europeismo è logora». Allora era una provocazione, oggi non lo sembra più tanto. Il centrosinistra italiano ha fatto del ritorno in Europa il fulcro del suo programma di governo e ha scelto per guidarlo il suo leader più europeista, l’uomo che ci ha portato nell’euro e che per cinque anni abbiamo prestato all’Europa.
Il referendum francese impone a tutti, anche in Italia, di ripensare invece il proprio europeismo. Non per rovesciarlo nello sciovinismo etnico dei leghisti, né nel comunismo etico di Bertinotti, ma per saper opporre a queste posizioni, che sono destinate solo a crescere, un’altra e nuova visione, più pragmatica e meno ideologica dell’Europa.
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