(WSI) – Nel quadro ancora depresso dell’economia mondiale, l’Europa sta facendo peggio di tutti. La crescita nel 2010 non raggiungerà il 2%, meno degli USA (3%) e del resto del mondo (6%). E questo mentre 23 milioni di europei sono alla disperata ricerca di lavoro. La crisi rimbalza dal settore immobiliare alle banche, dalle imprese alle famiglie, e da uno stato all’altro (Grecia, Irlanda, Portogallo…); la moneta comune è a rischio, e con essa – ha spiegato Luigi Spaventa su Repubblica – l’intera costruzione europea. L’Europa sta sbagliando politiche economiche.
Occorre capire bene il problema economico all’origine di tutto: l’insufficienza della domanda. Vuol dire che le fabbriche sono sane – nessuno le ha bombardate (Giavazzi) -, ma sono scomparsi i clienti. Per cui licenziano. E i lavoratori, spaventati, comprano sempre meno. È il “paradosso del risparmio”: tutti si mettono a risparmiare nello stesso momento: calano le vendite delle imprese, i redditi, quindi anche… i risparmi!
Non è difficile sostenere la domanda: basta spendere! Un governo può fare investimenti, p.es. nella banda larga, nelle università. O può dare soldi alle famiglie che non arrivano a fine mese, pronte a spendere tutto quel che gli entra. I soldi si prendono sui mercati (debito pubblico), o si stampano! Se dunque la crisi perdura, è perché vi sono ostacoli culturali, istituzionali, e politici che frenano le politiche di rilancio della domanda.
Il primo ostacolo è culturale. Negli ultimi due anni è emersa una verità sorprendente: una buona metà degli economisti – come quelli laureati a Chicago e dintorni – non possiede gli strumenti per analizzare la crisi attuale. Sono costretti ad improvvisare; perché a loro è stato insegnato che la domanda non può essere carente: non è previsto dai loro modelli, dove i mercati “si autoregolano”.
Il problema dunque deve essere nella struttura produttiva. E allora ragionano come se la crisi non ci fosse: nuovi stimoli, se finanziati col debito, manderanno alle stelle i tassi d’interesse; se finanziati con la moneta, scateneranno l’inflazione. Ma entrambe queste previsioni si sono dimostrate completamente sbagliate. Sia l’inflazione, sia i tassi americani e tedeschi sono scesi ai minimi storici. Sul piano teorico, colpisce la distanza dei liberisti contemporanei dal padre del monetarismo Milton Friedman (1912-2006), che criticò la Fed perché nel 1929-33 non stampò abbastanza moneta. Questi di oggi sono molto più a destra: estremismo o regressione culturale?
Previsioni sbagliate, ricette sbagliate. Persone Molto Importanti in Europa, come il governatore della BCE Jean Claude Trichet, e Angela Merkel, giurano che l’unico modo di uscire dalla crisi è l’austerità: soffrire, tagliare, licenziare. I fallimenti servono a “risanare” il sistema, a eliminare inefficienze, corruzione, eccessi. La disoccupazione è “volontaria”: il lavoro si trova, basta adattarsi. L’intervento dello Stato peggiora solo le cose: ritarda il “risanamento strutturale”. Lo stesso Tremonti due anni fa scimmiottava queste idee pre-keynesiane: “Pensare di risolvere la crisi economica con politiche di stimolo dell’economia fa ridere”, perché “ciò presuppone che la crisi sia un fenomeno ciclico, e non strutturale” (8/11/08). Ma oggi l’Europa è al capezzale dell’Irlanda che – unico fra i paesi presi di mira dai mercati – scelse l’austerità, ed è affondato.
Il secondo ostacolo è istituzionale. La BCE è nata per combattere l’inflazione (La FED ha invece il doppio mandato: “stabilità dei prezzi” e “crescita”): funziona bene in tempi normali, male in tempi di crisi. Interpreta in modo estremo la sua “indipendenza”: mai finanziare gli stati membri. La realtà ha infine imposto il contrario: ma è troppo poco, troppo tardi per favorire la ripresa.
Da ultimo, gli ostacoli politici. Gli interessi forti sembrano prevalere su quelli dei disoccupati, e sul buon senso. I governi spendono le poche risorse disponibili per salvare, con le banche, anche gli azionisti. E la BCE, se immette moneta, la immette nel sistema finanziario, dove rimane a sostenere le borse (e le rendite), senza molti effetti sull’economia reale. C’è poi la Germania, che accumula enormi surplus commerciali, e non rinuncia al suo schiacciante vantaggio competitivo sui partners europei.
Ai PIIGS, che hanno bisogno di crescita come dell’aria, indica, per ritrovare l’equilibrio competitivo, la via della deflazione. Ma – Hibernia docet – la deflazione accresce il peso reale dei debiti, quindi i rischi di crisi finanziaria. E’ un dilemma che anche l’Italia dovrà affrontare, dato che il nostro deficit con l’estero è ormai al 3% del PIL. La Germania preferisce finanziare i salvataggi in Europa piuttosto che alzare i salari. Gli irlandesi hanno ricevuto 98 miliardi, in prestito: al 5,7%! Dovranno restituirli. Proprio non si vede come faranno.
La via d’uscita per l’Europa sarebbe, al contrario, un aumento dell’inflazione, in Germania più che altrove, per qualche anno. Consentirebbe ai PIIGS di recuperare competitività senza deflazione. Ridurrebbe il peso reale di tutti i debiti. E indurrebbe gli europei a spendere una moneta che altrimenti si deprezza sui conti bancari. O, perlomeno, ci vorrebbe una ristrutturazione dei debiti dei PIIGS: la Germania, che nel 1920-33 affondò sotto il peso delle “riparazioni”, dovrebbe saperlo. Ma l’ortodossia liberista considera entrambe le ipotesi anatema. Avanti il prossimo!