Società

EURO ADDIO
NUOVA LIRA
LEGATA AL DOLLARO

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(WSI) – Il 2 giugno 2006, sessantesimo della Repubblica, tutta la stampa mondiale viene convocata a palazzo Chigi per le 18. Sul palchetto c’è il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, alla sua destra il superministro dell’Economia, Antonio Fazio, alla sinistra il governatore della Banca d’Italia, Cesare Geronzi. Nel nuovo parlamento il Pul (Partito Unico della Libertà), appoggiato dalla Lega e da una piccola formazione di Destra nazionale, ha un’ampia maggioranza. Il Cavaliere ha venduto Mediaset a Time Warner della quale è diventato azionista, con grande scorno dell’arcirivale Rupert Murdoch. La mossa aveva sorpreso i più, e nessuno aveva capito che era propedeutica a ben altri rivolgimenti. Solo il Corriere della sera, gestito da un nuovo patto di sindacato costituito da Magiste, Mediolanum, Sai Fondiaria, Capitalia, Banca Intesa e Sanpaolo (che hanno sostituito Fiat e Mediobanca), aveva titolato: la svolta americana di Berlusconi.

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Così, l’annuncio storico che sta per essere dato a mercati chiusi, coglie quasi tutti di sorpresa: l’Italia decide di abbandonare l’euro. L’ipotesi estrema, chiesta dalla Lega, di ricorre all’articolo 60 del Trattato costituzionale che riguarda il recesso dall’Unione, è stata scartata. E’ prevalso il parere del professor Augusto Sinagra: denunciare il solo Trattato di Maastricht. Decisione, tra l’altro, che spetta all’esecutivo non al parlamento. Un vero coup de théatre, preparato da negoziati segreti che hanno impegnato tutta la nostra diplomazia. Negoziati a tutto campo, come vedremo. Con la Banca centrale e i governi dell’Eurolandia, ma non solo.

Le agenzie di stampa non hanno ancora finito di battere il primo flash, che arriva la seconda bomba: l’Italia sceglie di legarsi al dollaro con un accordo di cambio stabile. La Nuova Lira, definita dal governo «lira pesante», avrebbe avuto una parità con la valuta americana (1 dollaro=1 lira) che significava una svalutazione del 25% rispetto alla parità euro-dollaro. Un terremoto, l’Italia come l’Argentina del ministro Cavallo?

Antonio Fazio, da governatore della banca centrale, tra il 1995 e il 2000 aveva preparato al meglio l’ingresso nell’euro anche se era convinto che sarebbe stato un disastro. Bisognava prima rafforzare la struttura produttiva, aumentare il livello di competitività, abbassare il costo del lavoro, allungare l’età pensionabile, tagliare la spesa pubblica, compiere una operazione straordinaria per ridurre lo stock del debito. Scelte drastiche che richiedevano una solida maggioranza in Parlamento, un governo deciso a difendere gli interessi nazionali e non in preda a utopie di scuola, solide alleanze economiche internazionali, non solo amici nelle banche d’affari, ma soprattutto un paese forte disposto a fare da sponda.

Né la Germania né la Francia lo erano stati, la prima perché non poteva, con il fardello dell’unificazione sulle spalle, la seconda perché ci ha sempre sofferto come concorrenti temibili. Gli unici in grado di farlo sono gli Stati Uniti, non gratis, ma come parte di uno scambio reciprocamente vantaggioso. E i negoziati segreti con gli americani, riguardavano proprio i contorni del Big Bargain.

Il cambio di regime valutario è accompagnato con una cura da cavallo (con la c minuscola). Blocco di prezzi, tariffe e salari pubblici per un anno. Un patto (da negoziare) tra sindacati e imprenditori, per impedire ogni traslazione della nuova parità. Riduzione di due festività non lavorative. La legge finanziaria avrebbe portato nelle casse dello stato, con tagli e imposte straordinarie, qualcosa come 50 miliardi delle nuove lire. Tra le tasse c’è anche una patrimoniale una tantum sui redditi finanziari e sugli immobili, esclusa la casa d’abitazione.

Nel frattempo viene messo in cantiere un piano straordinario per ridurre lo stock del debito di circa il 20%, vendendo l’immenso patrimonio dello stato agli italiani, come proposto dal vecchio professor Ruggero Guarino, un anno prima. La complessa operazione deve consentire di ridurre il debito all’80% del prodotto lordo. L’impatto della svalutazione sarebbe stato compensato dal contro-effetto del minor debito e avrebbe spinto le agenzie di rating a rinviare almeno di un anno il downgrading.

Ma per alzare una cortina di ferro contro la speculazione, sono stati messi a punto altri accordi con la grande finanza da Wall Street alla City. Un aiuto fondamentale viene dal nuovo presidente della Fed, Martin Feldstein (uno dei maggiori avversari della moneta unica europea) che ha rimpiazzato Alan Greenspan. Ha dato grandi consigli anche Gordon Brown, primo ministro britannico dopo il pensionamento di Tony Blair dal cuore sempre più malandato. Come consulente del governo italiano viene ingaggiato Bernard Connolly, l’euroscettico britannico, autore di un provocatorio libro sull’euro (The Rotten Heart of Europe), il primo a calcolare gli effetti dell’uscita dell’Italia dalla moneta unica europea, un paper della primavera 2005 per la Banque AIG che fa capo al colosso Usa delle assicurazioni. Ed ecco il piano.

Una parte del debito collocato in euro viene spostato in titoli denominati in dollari, con un concambio vantaggioso. Sarebbe aumentato lo spread sul bund (i titoli di stato tedeschi), ma ormai il punto di riferimento erano i Federal funds. I tassi di interesse italiani si allineano al 4% al quale la Federal Reserve tiene i suoi da un anno. Due punti in più rispetto ai tassi europei. L’effetto negativo sulla congiuntura è compensato dalla svalutazione. Un rialzo degli interessi, invece, rende i titoli italiani più appetibili sui mercati. E’ prevedibile che lo sconquasso faccia rialzare il dollaro, nel breve periodo, ma un euro senza la lira è destinato a restare forte, anche più di prima.

Il grande accordo ha fondamentali ricadute nell’economia reale e nella disastrata industria italiana che, come insiste ormai da tempo Fazio, era stata la vera causa del «declino» e del fallimento dell’operazione euro. Vediamo alcune delle intese stipulate, gentlemen’s agreement garantiti però dalla Casa Bianca, dalla Fed e da un Forum del Big Business riunitosi segretamente con alcuni grandi industriali pubblici e privati italiani. Tra questi ultimi, Montezemolo, gli eredi Agnelli, Marco Tronchetti Provera.

Primo passaggio: il governo americano offre a Finmeccanica un cospicuo pacchetto di commesse che le consentono di aumentare il portafoglio ordini e il fatturato previsto almeno nei prossimi cinque anni. Nell’elettronica della difesa e nello spazio, previa rottura dei legami con i francesi. C’è, poi, all’orizzonte una possibile fusione con Raytheon. Nell’aeronautica civile Boeing avrebbe abbondantemente saturato gli impianti di Alenia. Una megacommessa navale può rimettere in piedi Fincantieri. Non solo. Ad Ansaldo arrivano ordini per le nuove centrali nucleari in costruzione negli States. E alla Breda le commesse per i nuovi treni ad alta velocità lanciati da Jeb Bush in Florida e da Arnold Schwarzenegger in California.

Finmeccanica, a questo punto, insieme alla Cassa Depositi e Prestiti, può rilevare una quota della Fiat e immettere nuovo capitale, completando il salvataggio. Nel frattempo, si sarebbero aperti negoziati con la Ford per riprendere in mano quel piano di integrazione fatto saltare da Craxi e Romiti vent’anni prima.

Nelle telecomunicazioni, è pronto uno schema per entrare sul mercato americano della telefonia mobile. Nonostante un tourbillon di fusioni, i colossi Usa hanno mostrato l’incapacità di colmare il gap con gli europei. Non solo, ma la Fcc, l’agenzia sulle telecomunicazioni, ha deciso di adottare gli standard Gsm e Umts dove gli europei si sono mostrati superiori. Dunque, Telecom Italia si sarebbe sposata con Verizon e avrebbe avuto poi campo libero in America Latina dove gli statunitensi avevano messo i bastoni tra le ruote (caso brasiliano insegna). Ciò può girare anche notevoli commesse a StMicroelectronics che nei chip per telefonini era alla pari di Motorola.

Ma il vero big deal riguarda l’Eni che con l’arrivo di Scaroni vuol cambiare strada rispetto all’orgoglioso, ma sterile, isolazionismo dell’era Mincato. Così, viene associata alla pari degli americani allo sfruttamento dei giacimenti iracheni. Non solo Nassiriya, che gli italiani si erano difesi in fondo con i loro carabinieri, ma in tutto il paese, anche nel nord. In compenso l’Eni avrebbe fatto saltare il proprio accordo con l’Iran. La compagnia italiana partecipa anche allo sfruttamento del gas e del petrolio nell’immenso bacino caucasico e transcaucasico, che le rivolte democratiche negli ex satelliti dell’Urss hanno sottratto all’influenza russa, allargando così la coltre a stelle e strisce. Un fiume di greggio sta per sommergere l’Italia, come mai prima, nemmeno ai tempi di Enrico Mattei. Greggio a prezzo relativamente basso grazie a contratti pluriennali che sfuggono alla tagliola del mercato spot, ma soprattutto stabile grazie alla parità lira-dollaro.

L’accesso a risorse energetiche sicure (anche dal punto di vista del prezzo) era stata la chiave fondamentale del miracolo economico italiano. Altro che distretti. L’Eni è rimasta un gioiello, uno dei pochi, sopravvissuto ai cambi di regime, ma non può andare avanti sola contro tutti. Ha bisogno di una grande sponda geopolitica e geoeconomica. Alcuni sospettano che potrebbe finire in mano alla Exxon.

Comunque, tutto questo riguarda il futuro. Per adesso, il Big Bargain getta le fondamenta di una ripartenza. E’ una specie di nuovo piano Marshall senza aiuti a fondo perduto, perché l’Italia, sia pur in declino, non è il paese sconfitto e impoverito del dopoguerra. E’ un paese prostrato dalla mancanza di una grande strategia, dopo che quella europea sulla quale aveva puntato il centrosinistra, è fallita.

Quella americana riuscirà? Fazio l’ha preparata con un occhio alla economia reale mancato a Ciampi, l’architetto dell’euro standard. Ha studiato in America da giovane, è un keynesiano cattolico della scuola dei Saraceno, soprattutto ha battuto in tutte le sue considerazioni finali, anno dopo anno, per un quindicennio, sulla forza dell’economia americana. Quella reale, che resta il fondamento di quella finanziaria. E non ha mai cessato di indicare la strada: oltr’Atlantico, più che oltre le Alpi.

Fino a che punto? Fazio è italiano fino al midollo, si rende conto dei pericoli. La tempesta valutaria che si scatena il 3 giugno è tale da mettere a rischio l’intera operazione. La tempesta politica ci espone a vere e proprie ritorsioni. Ma nel frattempo a Berlino c’è il governo democristiano (e filo americano) di Angela Merkel. A Parigi, Jacques Chirac è in rotta e tutti dicono che nel 2007 vincerà la gauche républicaine guidata da Laurent Fabius. Dall’Iraq se ne stanno andando tutti. E nessuno ha voglia di sfidare ancora l’America. E per che cosa, poi? Per l’Italietta?

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