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Elusione fiscale: giro di vite della Cassazione

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Norme antielusive: giro di vite dalla Corte di Cassazione nei confronti del sistema del dividend washing. Secondo i supremi giudici, la brevità dell’intervallo tra l’acquisto e la successiva rivendita delle azioni crea un’operazione la cui unica finalità è realizzare un vantaggio fiscale.

Dal punto di vista fiscale si considera “elusivo” il comportamento di quel soggetto passivo d’imposta che pone in essere un negozio giuridico formalmente rispettoso del dato normativo, ma privo di “valide ragioni economiche”, che ha come suo fine non dichiarato quello di “aggirare obblighi e divieti previsti dall’ordinamento tributario ed ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti” (articolo 37 bis Dpr n. 600/73).
A lungo si è dibattuto in giurisprudenza e dottrina se nell’articolo 37 bis, si potesse ravvisare una clausola generale antielusiva, prescindente dal regime civilistico degli atti, nell’articolo 37 comma 3 del medesimo Dpr, secondo cui possono essere imputati al contribuente redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando sia dimostrato che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.

Problema
Tale problema viene nuovamente affrontato, ci sembra questa volta in maniera risolutiva, dalla Suprema Corte sezione tributaria nelle sentenze 20398/05 e 22932/05, che si riferiscono entrambe a vicende anteriori all’entrata in vigore dell’articolo 37 bis.
La sentenza n. 20398/05 si occupa di un’operazione di “Dividend washing” che si ha quando una società acquirente di azioni da un fondo comune d’investimento, dopo averne percepito i dividendi, rivende le azioni al fondo stesso, in tal modo evitando il più gravoso regime fiscale previsto per i fondi comuni d’investimento dall’articolo 9 della legge n.77/1983, che dispone che sugli utili azionari distribuiti da un fondo deve essere applicata una ritenuta a titolo d’imposta. La Corte osserva come la brevità dell’intervallo tra le operazioni di acquisto e di successiva rivendita delle azioni, ambedue concluse a cavallo della riscossione del dividendo, la mancanza di apprezzabili ragioni non fiscali dell’operazione e la quasi coincidenza tra l’importo del dividendo e la differenza tra prezzo di cessione e quello di riacquisto, erano tutte circostanze che dimostravano l’esistenza di un collegamento tra i due negozi, dante luogo a un’operazione la cui unica finalità era quella di realizzare un vantaggio fiscale, mediante imputazione: a) al fondo comune d’investimento di una plusvalenza da negoziazione di titoli fiscalmente irrilevante, invece di un dividendo soggetto a ritenuta a titolo d’imposta; b) alla società di capitali di una minusvalenza fiscalmente deducibile e di un dividendo, con relativo credito d’imposta e ritenuta d’acconto scomputabili dall’imposta stessa dovuta.

Dividend stripping
La sentenza n. 22932/05 concerne, invece, un’ipotesi di “dividend stripping” che si ha in caso di cessione del diritto di usufrutto su azioni da una società estera a una società nazionale, dietro pagamento di un corrispettivo pari all’importo degli utili che saranno percepiti frazionatamene in più anni. Premesso che il contratto di cessione di usufrutto su azioni verso corrispettivo è un negozio tipico, utilizzato, nella normale attività d’impresa, dal cedente per procurarsi liquidità attualizzando frutti futuri, e dal cessionario per investimento redditizio, la Corte evidenzia come, nel caso in esame, con le operazioni di costituzione o di cessione di usufrutto su azioni, la società estera aveva posto in essere un meccanismo elusivo, al fine esclusivo di evitare il regime di tassazione sui dividendi più gravoso per le società estere titolari delle azioni o del diritto di usufrutto sulle stesse (e cioè una ritenuta a titolo d’imposta, senza credito, del 32,4 per cento).
In entrambe le sentenze la Corte, dopo aver ribadito come appaia assai arduo individuare nell’articolo 37, comma 3, del Dpr n. 600 del 1973 una clausola generale antielusiva o antiabuso, rileva come vada rivisto quell’orientamento giurisprudenziale, secondo cui, prima dell’introduzione dell’articolo 37 bis nel Dpr 600/73, non esisteva una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale italiano. Tale revirement andava effettuato alla luce di alcuni principi ricavabili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria sul concetto di abuso del diritto. La corte di Giustizia ha affermato che i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie. Questo principio è stato ritenuto, ad esempio, applicabile anche nel campo doganale, statuendo che non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi tali agevolazioni.
Pertanto, benché non possa tuttora affermarsi l’esistenza di una regola che reprima nell’intero campo dell’imposizione fiscale l’“abuso del diritto”, attraverso l’inopponibilità dell’atto all’amministrazione finanziaria, la presenza di fonti comunitarie che talvolta rinviano al legislatore nazionale per la previsione di clausole anti-abuso, talaltra ne contengono una diretta definizione, fa emergere, secondo la Corte, un principio tendenziale, che impone una ricerca di appropriati mezzi all’interno dei diversi ordinamenti nazionali per contrastare tale fenomeno.
In applicazione di tale principio la Corte ritiene che la ragione, per cui sia l’operazione di dividend washing, di cui si occupa la sentenza n. 20398/ 2005, che l’operazione di dividend stripping, oggetto della sentenza n. 22932/2005, non possono produrre alcun effetto nei confronti del fisco, vada ravvisata non in una presunta simulazione oggettiva o una interposizione fittizia o reale, ma in una nullità assoluta dei negozi giuridici collegati per difetto di causa, in quanto dagli stessi non consegue per le parti alcun vantaggio economico, all’infuori del risparmio fiscale.

Sergio Antonelli