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(WSI) –
L’insistenza di Fassino («Se cade Prodi si va a votare») e di D’Alema («Stiamo tutti insieme, se cade uno cade la coalizione») è più che comprensibile.
Si cerca di tenere a bada la maggioranza — e soprattutto l’estrema sinistra — in un passaggio molto delicato. E le si prospetta il precipizio verso le elezioni anticipate. Ma la mossa appartiene alla tattica della politica. Se fosse strategica, sarebbe quanto meno avventata.
In altri termini, se Fassino e D’Alema prevedessero davvero il voto anticipato come unico sbocco di un’eventuale crisi, commetterebbero un grave errore di valutazione.
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Le elezioni oggi, con il 70 per cento degli italiani più o meno scontento delle scelte del governo, si annunciano nel modo peggiore per il centro-sinistra. Naturalmente le sorprese sono sempre possibili, ma l’impressione è che abbia ragione Lamberto Dini quando all’«Unità» dice: «Votare ora sarebbe un massacro, si consegnerebbe il Paese alla destra».
L’ipotesi è più che probabile. Quindi minacciare le elezioni è un’astuzia per evitare troppi giochi intorno alla finanziaria e anche per scoraggiare eventuali complottisti. Ma andare sul serio al voto anticipato è tutt’altra questione. Un conto è la volontà di tagliare le gambe a chi pensa, in una forma o l’altra, alle «larghe intese» o agli esecutivi tecnici. Un altro conto è preparare in modo consapevole il suicidio dell’Unione.
Del resto, nel nostro ordinamento costituzionale le Camere sono sciolte dal presidente della Repubblica. Non dai partiti, quindi non da Fassino o dal leghista Maroni (che pure ha chiesto la fine della legislatura). Il capo dello Stato, in presenza di una crisi di governo, ha l’obbligo di verificare in Parlamento l’esistenza di una maggioranza uguale o diversa da quella smarrita. Si dirà che questa procedura è datata, cioè non più in sintonia con lo spirito del bipolarismo e con l’elezione semi-diretta del premier.
La risposta è che questa, non un’altra, è la nostra Costituzione e non si può aggirarla quando conviene. Anzi, una riforma, certo contraddittoria, che modificava nel profondo la lettera costituzionale è stata di recente rigettata dal popolo con un referendum.
Ne deriva che la minaccia di elezioni anticipate tradisce solo il nervosismo dei Ds, il partito più importante della coalizione, quello su cui gravano le maggiori responsabilità. La crisi di consenso al governo è soprattutto una crisi del consenso alla Quercia (e ovviamente alla Margherita, il secondo partito).
Si sta profilando di fatto la rottura con i ceti medi e produttivi, a cui con tanta tenacia i Ds avevano guardato in questi anni: vedi le iniziative di Bersani. E quindi si tratta di correre ai ripari.
Con le categorie in piazza e le critiche sferzanti alla finanziaria di nomi-simbolo della sinistra quali Cofferati, Cacciari, Illy, Domenici, è chiaro che il parlare di elezioni anticipate non va preso troppo sul serio. Più che una soluzione, è un modo per segnalare una difficoltà.
Di certo, tuttavia, né i Ds né la Margherita sanno come uscire dalla stretta in cui si trova il governo. La speranza è che Prodi sappia trovare uno slancio, un guizzo. Sia per parlare al Paese sia per riacciuffare la leadership effettiva della maggioranza che Fausto Bertinotti rischia di sottrargli. Ma al di là di questa speranza, si naviga a vista. Niente «larghe intese» né governi tecnici o istituzionali. L’elenco dei «no» è lungo e convincente. Ma qualcuno, se le cose non migliorano, dovrà cominciare a dire dei «sì».
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