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ECONOMIA USA: RIPRESA O RIMBALZO?

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Come temevamo, dall’economia USA sono giunti segnali contrastanti, al punto che le ipotesi più
ottimistiche di una robusta ripresa già avviata richiedono ulteriori conferme nei mesi a venire. Finora,
infatti, si può solo parlare di un rimbalzo del clima di fiducia e dei livelli di attività rispetto ai minimi toccati in
coincidenza con il conflitto iracheno, ma quanto tutto ciò sia duraturo e sostenibile è ancora da vedere.

E’ vero, i
consumi tengono bene e l’indice nazionale del supply management è risalito oltre lo spartiacque di quota 50, a
51,8 per l’esattezza; ma non siamo ancora sui livelli di inizio anno (53,9 in gennaio), mentre componenti come
l’occupazione e le scorte, con letture rispettivamente a quota 46,1 e 45,9, segnalano sempre una contrazione di
attività. Questi segnali, peraltro confermati dai dati aggregati relativi al mercato del lavoro e alle scorte, riflettono la
cautela con cui si muovono le imprese, come se queste giudicassero tutt’altro che stabile, e tale da giustificare
quindi riassunzioni e aumento dei magazzini, il miglioramento della domanda.

Il punto davvero dolente
dell’attuale fase è rappresentato infatti proprio dal mercato del lavoro, ancora in contrazione quasi
generalizzata, salvo che nel comparto degli impieghi temporanei (+42mila unità in luglio, in crescita stabile da
diversi mesi), quasi a confermare la precarietà del momento; a livello aggregato in luglio si è registrata ancora una
perdita di 44mila occupati, la sesta consecutiva a partire da febbraio, con 71mila posti in meno nell’area
manifatturiera.

Se a questo aggiungiamo la revisione al ribasso dei dati precedenti (in particolare per i nuovi
occupati di giugno, corretti da –30mila a –72mila) e l’improvvisa caduta delle ore lavorate (-0,4% a livello
complessivo, con una punta del –1,1% nel settore manifatturiero), ne esce un quadro decisamente sconfortante,
tale da porre in forse quell’auspicata accelerazione del PIL nel 3° trimestre, intorno a quel +5% che la stessa FED,
viste le sue stime di crescita per l’intero 2003, implicitamente sembrerebbe condividere.

Da notare, nell’ambito dei
dati di venerdì scorso, che anche i sondaggi effettuati presso le famiglie, ritenuti un indicatore più tempestivo
nell’anticipare variazioni dell’occupazione, hanno evidenziato un netto calo (-260 mila unità, ad annullare il
temporaneo progresso di giugno), sicché la discesa del tasso di disoccupazione (dal 6,4 al 6,2%), che forse
qualcuno ha ingenuamente interpretato come un segnale positivo, non riflette altro che il ritiro dal mercato di parte
della forza lavoro, viste le perduranti difficoltà nel trovare impiego (come previsto dalla classica teoria del
“lavoratore scoraggiato”).

Di fronte a simili segnali, gli investitori non sembrano comunque disposti a rinunciare al loro
ottimismo di fondo, almeno a giudicare dalle perdite contenute di Wall Street venerdì scorso, intorno
all’1% soltanto, e dall’obbligazionario che ha quasi fatto fatica a reagire, mentre solo qualche mese in
circostanze analoghe fa sarebbe letteralmente volato. Qui forse prevalgono motivi tecnici, legati anche alle
coperture effettuate dalle società che erogano mutui ipotecari, alle prese con una brusca frenata delle richieste di
rifinanziamento, il cui costo è balzato da livelli vicini al 5% nel pieno boom di un paio di mesi fa ad ormai quasi il
6,40%, sulle scadenze trentennali.

Per molti osservatori, una volta scoppiata la bolla dell’obbligazionario o almeno
concluso il suo lungo bull market, che durava ormai da oltre 21 anni, una serie di eccessi, rispetto alle concrete
prospettive di ripresa economica e di risalita dell’inflazione, è da mettere in conto; per altri, proprio la “guerra alla
deflazione” voluta da alcuni influenti membri della FED e in parte condivisa dallo stesso Greenspan potrebbe alla lunga comportare, attraverso l’adozione di una politica monetaria fin troppo espansiva, maggiori rischi di inflazione
futura, che i mercati ora stanno già iniziando a scontare.

Il dato importante comunque è che, al contrario di
quanto accade con i crolli o i boom delle Borse, fenomeni che invece si autoavvitano con l’economia,
l’obbligazionario trova nella sua stessa caduta uno stabilizzatore automatico: la brusca risalita dei rendimenti
frena infatti la crescita dell’economia e torna a spostare l’interesse degli investitori dall’azionario al reddito fisso.

Per questi motivi, a meno di assistere a imminenti conferme decisamente a favore di una forte crescita
congiunturale (non sarà però questa la settimana decisiva per un simile evento, visto che il calendario, almeno per
quanto riguarda gli USA, è povero di spunti; segnali più significativi giungeranno invece dalla Germania), la
prudenza sembra tornata d’obbligo. Soprattutto ora che gli allarmi terrorismo, veri o inventati da Governi alle prese
con seri problemi di consenso dopo le fandonie raccontate sull’Iraq, sono tornati all’ordine del giorno.

Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim