*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori e clientela professionale ai sensi dell’allegato n.3 al reg. n.16190 della Consob. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) – L’illusione dei primi giorni dell’anno si è infranta contro il muro della realtà. Una parte del mercato aveva pensato di essere già entrata in una fase di stabilizzazione, preludio alla ripresa della seconda parte dell’anno trainata da politiche fiscali e monetarie creative e aggressive. Molti si erano sbilanciati
sulla fine del bear market e sui minimi ormai alle spalle. Posizioni generose e coraggiose, ma sempre motivate dall’idea di fondo che questa è una crisi ordinaria, certamente più grave di molte altre, ma comunque superabile in tempi ragionevoli con gli strumenti a disposizione dei governi e delle banche centrali.
Un’altra parte del mercato, senza spingersi più di tanto a teorizzare sui massimi sistemi, si era sentita quanto meno nel diritto di potere contare su un robusto bear market rally, reversibile ma tale da portare parecchio sollievo.
Invece niente. I dati macro sono pessimi. In dicembre è proseguita la caduta verticale di tutto (produzione, consumi, investimenti, prezzi, occupazione) e si è avuta per di più conferma di quello che si sospettava ovvero l’allargamento della crisi anche a Cina e India. C’è stata una pausa nel deterioramento della fiducia dei consumatori, dovuta alla discesa del prezzo della benzina, ma non basta certo a far pensare a un rallentamento della caduta.
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Con dati macro e mercati finanziari in queste condizioni il mondo corporate ha reagito velocemente, tagliando tutto quello che si poteva, ma i dati sugli utili del quarto trimestre si stanno profilando molto pesanti. Ci sarebbe da stupirsi del contrario. In America ci sarà anche l’effetto negativo del rafforzamento del dollaro, che ridurrà gli utili fatti all’estero dai grandi gruppi.
Di fronte a questa realtà la risposta fiscale americana ha dato e continuerà a dare legittimamente qualche motivo importante di conforto, ma rimane una delle condizioni necessarie (insieme alla ripresa di funzionamento del mercato del credito) ma non ancora sufficienti per un’uscita dalla crisi.
Uno scenario macro realistico per il 2009 vede a questo punto un Pil americano ed europeo che continua a contrarsi, sia pure a velocità decrescente, fino alla fine dell’anno. La storia della ripresa (o anche solo della stabilizzazione) già a metà anno serve a infondere un poco di fiducia, ma gli stessi policy maker, se si va a guardare sotto la superficie delle dichiarazioni, non se ne mostrano troppo convinti. Alcuni, come Strauss-Kahn e Trichet, rinviano ufficialmente tutto al 2010.
Con davanti 12 mesi di Pil sempre più piccolo non è ragionevole pensare a utili stabili o tanto meno in ripresa. Qualcuno si era illuso che un ipotizzato rallentamento delle svalutazioni delle banche avrebbe da solo migliorato il tono complessivo degli utili, ma di questo rallentamento non c’è traccia e semmai si nota un’accelerazione.
Con utili sotto pressione, d’altra parte, non è pensabile che i mercati azionari abbiano spazio per rialzi che non siano esangui e temporanei ancora per molti mesi.
Detto questo, non bisogna però pensare che, dopo il pacchetto fiscale che verrà approvato nelle prossime settimane negli Stati Uniti, non ci sia più niente da fare se non disperarsi. Il pacchetto non è l’ultima spiaggia. Già si profilano gli interventi ulteriori che verranno presi nei prossimi mesi.
In primo luogo ci sarà un’applicazione su scala ancora più ampia degli acquisti diretti di titoli da parte delle banche centrali. Non c’è nessun limite teorico a questa azione, c’è solo da convincere i mercati che non si vuole abusarne. La forza del dollaro e la tenuta della domanda di titoli del debito pubblico americano fanno pensare che le perplessità del mercato in proposito, almeno in questa fase, siano più un esercizio intellettuale che una paura concreta.
In secondo luogo si profila un uso ancora più aggressivo dei veicoli governativi di sostegno alle banche, come la Tarp o il fondo francese. La Tarp, intanto, è stato usata solo per metà ed è molto probabile che fra pochi mesi ci si deciderà a dotarla di nuovi mezzi. Interventi successivi sono tipici di tutte le crisi bancarie, dagli anni Trenta fino al Resolution Trust degli anni Novanta, ricapitalizzato più volte.
Poiché però il passaggio parlamentare di questi provvedimenti è lento e controverso anche nel migliore dei casi (lo stiamo già vedendo con le difficoltà dell’amministrazione Obama con la stessa base democratica del Congresso) è possibile che i soldi dei veicoli tipo Tarp vengano usati in futuro sempre più a leva. Il Tesoro mette ad esempio 10 in un veicolo che raccolga i titoli tossici di una banca (o di tutto il sistema bancario) e la banca centrale presta al veicolo (garantito dal Tesoro) 50, 100 o 1000. Anche qui non c’è nessun limite se non quello della credibilità, un limite che tende invariabilmente ad alzarsi verso l’infinito in momenti di emergenza o di panico.
In pratica, quindi, oltre al taglio delle tasse, ai soldi a tutti gli stati come la California che non riescono a pagare gli stipendi a professori e poliziotti, ai fondi per riparare i ponti e per le energie rinnovabili, ai soldi per ricapitalizzare le banche, a quelli per acquistare sul mercato carta commerciale, bond governativi lunghi e mutui cartolarizzati, oltre cioé a tutte le misure monetarie e fiscali già metabolizzate fin qui dai mercati avremo nei prossimi mesi altre due misure non ancora scontate. Da una parte i veicoli per gli asset tossici, come abbiamo detto, e dall’altra un fondo speciale per i mutui. In pratica il governo, finanziato dalla Fed, comprerà mutui, ne abbatterà il valore nominale (cioé il capitale residuo che i proprietari di casa devono ancora pagare) e diventerà il nuovo creditore dei proprietari.
In sintesi il 2009 si profila come un anno in cui le cose lasciate a sé stesse (il cosiddetto scenario base) continuano a deteriorarsi, in cui le misure già annunciate (come il pacchetto di Obama) mitigheranno i danni ma non molto di più e in cui verranno prese altre misure ancora non scontate che, augurabilmente, ridurranno ulteriormente i danni. Il tutto, però, sarà faticoso, logorante, più lento di quanto sarebbe desiderabile e sempre a rischio, come tutte le situazioni fragili, di complicazioni e incidenti di percorso.
Non sarà in nessun modo, insomma, un anno piacevole. Per le borse un range tra i minimi di novembre e i livelli di inizio gennaio sarebbe quasi desiderabile. Scendere sotto i livelli di novembre, infatti, è possibile, soprattutto in caso di incidenti di percorso (che i policy maker, d’altra parte, faranno di tutto per prevenire, memori dell’esperienza Lehman).
I bond governativi lunghi, in questo contesto, avranno dunque occasioni frequenti per rivisitare i massimi recenti, ma in un quadro di grande volatilità. I bond corporate di durata tra i tre e i cinque anni e di alta qualità, dal canto loro, sono stati oggetto in questi giorni di ampia offerta molto bene assorbita. E’ un segmento su cui lavorare molto, nei prossimi mesi.
Certo, ci saranno di nuovo fasi di avversione al rischio che lo coinvolgeranno, ma il calo progressivo dei rendimenti dei governativi li riporterà ogni volta rapidamente al centro dell’attenzione.
Nel contesto globale di collaborazione crescente tra governi e banche centrali (con una distinzione tra misure fiscali e monetarie sempre meno netta) l’Europa non parte favorita. A livello fiscale la Washington politica può salvare la California, ma Bruxelles non ha, almeno sulla carta, la possibilità di salvare un paese dell’Unione in particolare difficoltà. Allo stesso modo è molto più facile per la Fed acquistare titoli dell’unico Tesoro che si trova ad avere come emittente che non per la Bce comperare titoli di 16 paesi dell’eurozona o di 27 dell’Unione.
Chi però da questo trae la conseguenza che l’euro, in caso di stress, arriverà alla parità con il dollaro o addirittura tornerà sui livelli del 2001 sceglie di ignorare quel tanto di flessibilità che i politici europei, messi alle strette, riescono a ritrovare in condizioni di emergenza. Lo si è visto in novembre con le misure a sostegno delle banche (non proprio ortodosse se viste da Bruxelles) e lo si vedrà in caso di difficoltà particolari di singoli paesi.
Si è trovato il modo di aiutare l’Islanda (che non è nemmeno nell’Unione), l’Ungheria e i baltici e si troverà probabilmente (a maggiore ragione) il modo per aiutare i paesi importanti dell’eurozona. Non bisogna pensare che l’industria tedesca, in serie difficoltà per la caduta verticale delle sue esportazioni, aspiri con tutte le sue forze a regalare all’Italia (o a chicchessia) una bella svalutazione competitiva. E’ l’ultima cosa che hanno in mente in questo momento.
Tra euro e dollaro si continuerà quindi a fluttuare in una fascia piuttosto ampia, da rompere eventualmente solo per brevi periodi. Tra 1.25 e 1.45 ( più 1.25 nel breve e più 1.45 quando la morsa della crisi globale si sarà allentata) non si fanno troppi danni né all’America né all’Europa.
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