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Economia mondiale: un’eredità di banche e nazioni ormai zombie

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(WSI) – La guerra del Vietnam, per quanto dura e sporca e nonostante il coinvolgimento diretto o indiretto di Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, non fece mai pensare nemmeno per un giorno, neanche nei momenti più bui, alla possibilità di precipitare in un conflitto mondiale.

Al contrario, nella percezione del grande pubblico ma anche in quella dei politici, la guerra di Corea fu vissuta come una possibile riapertura del conflitto mondiale conclusosi cinque anni prima, con l’aggravante di bombe atomiche che erano meno tabù di oggi, al punto che ne fu minacciato più volte l’utilizzo. L’atmosfera gelida e cupa di paura dell’estate del 1950 fu profondamente diversa da quella della Summer of Love del 1967, alla vigilia dell’offensiva del Tet.

Ancora più drammatica, se commisurata al minuscolo spazio geopolitico in cui si consumò, fu la crisi di Berlino del giugno 1948, quando Stalin decise il blocco del settore occidentale e tagliò ogni via d’accesso stradale o ferroviaria. Furono mesi di altissima tensione e nella mente di tutti fu ben presente la paura che la guerra fredda appena cominciata si trasformasse rapidamente in guerra calda.

Come si vede, più si è vicini nel tempo a un momento profondamente traumatico (come fu la seconda guerra mondiale) più si tende a pensare e a reagire come se si fosse ancora dentro a quel momento e a ritenere che quello sia lo sbocco inevitabile di qualsiasi incidente di percorso. Con il senno del poi sappiamo che è sbagliato ragionare in questo modo (i politici per primi cercano di evitare di rientrare in un dramma da cui si è appena usciti), ma è altrettanto sbagliato pensare che le paure non siano vissute come profondamente reali.

Ogni recessione, quando finisce, si lascia dietro una scia di mine inesplose che tipicamente deflagrano con un ritardo di un anno o due. E’ normale che banche e imprese che sono riuscite a sopravvivere alla crisi consumando cassa finiscano i soldi qualche mese o perfino qualche anno dopo che la crisi è terminata. La crisi bancaria giapponese ebbe il suo momento più buio nel 1997-98, a nove anni dallo scoppio della bolla.

Quando queste mine esplodono, vuoi accidentalmente vuoi per l’intervento degli artificieri (governi o banche centrali), il clima psicologico ritorna immediatamente ai momenti della crisi. Ansia, paura e depressione si diffondono e i profeti del double dip hanno buon gioco nel prevedere ricadute su livelli ancora più bassi del minimo precedente.

In realtà, la scia di incidenti fa parte della fisiologia del dopocrisi, è un colpo di coda doloroso che di per sé non è mai mortale. Sono rarissimi i casi di double dip nell’Ottocento, quando economie e mercati erano lasciati di più a se stessi. Al contrario, il double dip americano del 1937 e quello giapponese del 1997-98 sono oggi riconosciuti come effetto di misure di policy sbagliate, ovvero strette fiscali e monetarie premature e riluttanza a utilizzare soldi pubblici per salvare le banche.

La grande recessione del 2008-2009 si lascia dietro una scia particolarmente ingombrante. Oltre al trauma psicologico, che ci farà temere il peggio a ogni incidente per anni a venire, c’è un’eredità di banche e stati semizombificati, né vivi né morti, che sono il prezzo che dobbiamo pagare per avere voluto uscire in fretta dalla crisi con un numero contenuto di vittime.

Le misure europee, la costituzione del fondo di stabilizzazione e i tagli di bilancio in corso di approntamento, vanno nella giusta direzione ma sono solo l’inizio di un lungo cammino in cui sul piano strutturale molto resta ancora da fare. La questione della crisi fiscale dei paesi sviluppati ci accompagnerà per tutto il decennio con fasi di latenza che si alterneranno a riacutizzazioni improvvise.

I pessimisti e i vigilantes non daranno tregua. Si ridurranno infatti i disavanzi, e in Europa anche piuttosto rapidamente, ma per un effetto d’inerzia lo stock di debito su Pil continuerà a crescere per almeno due anni. Succederebbe anche nel migliore dei mondi possibili, ma non sarà comunque un bel vedere.

I paesi che taglieranno molto i disavanzi verranno criticati perché cresceranno meno, quelli che taglieranno poco verranno criticati perché taglieranno poco. In un’area composta da più di trenta paesi come l’Europa si troverà sempre una Ruritania che ha tagliato il disavanzo un tallero di meno di quanto promesso o un Pontevedro che ha avuto difficoltà nell’ultima asta.
Si moltiplichino poi trenta paesi per tre agenzie di rating per una ventina di notch e si avrà anche nei mesi migliori una Nestria cui viene messo l’outlook negativo o un’Austrasia cui viene tolto un più. Ognuno dei trenta paesi avrà poi una dozzina di banche che movimenteranno ulteriormente il quadro.

Quando a metà decennio l’Europa presenterà conti più in ordine l’attenzione si volgerà verso l’America e il Giappone. A quel punto, forse, sarà partita un po’ d’inflazione, ammesso che si riesca a ridurre la disoccupazione americana di un punto all’anno da qui al 2015. L’inflazione ci darà tormenti diversi ma in cambio eroderà gradualmente il peso del debito. Per una fase, forse, avremo contemporaneamente il tormento dell’inflazione e quello della crisi fiscale.

Questo sarà il lato oscuro del decennio, ma ce ne sarà anche uno illuminato dalla crescita. Se non si faranno errori clamorosi di policy, con i tassi dei paesi sviluppati a zero e gli emergenti in perfetta salute fiscale sarà difficile riuscire a non crescere. Gli emergenti, in particolare, commerciano sempre più tra di loro e dipendono sempre meno dai nostri capitali. Dipendono ancora in parte dalle nostre importazioni, ma lo sviluppo del loro mercato interno è già molto veloce in Brasile e in India e sta accelerando anche in Cina.

I mercati saranno molto difficili per i gestori attivi, perché alterneranno momenti di avversione al rischio quasi completa (con corollario immediato di timori di double dip) a momenti in cui ci si renderà conto che il mondo cresce ancora, mentre gli asset appena venduti sono in realtà a buon mercato.

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Su tutto aleggerà l’attivismo crescente dei politici. Siamo entrati in un nuovo mondo di leggi retroattive, di regole tagliate su misura per fare del bene o del male a un settore o a una singola compagnia, di regole del gioco che possono cambiare da un momento all’altro. A volte i policy maker mandano, anche volutamente, messaggi contrastanti. Le banche, ad esempio, saranno colpite fiscalmente e ridimensionate nei rischi che potranno prendere, ma saranno al tempo stesso aiutate a finanziarsi in tutti i modi possibili.
I portafogli dovranno quindi essere polarizzati. Un polo della paura, uno della crescita e in mezzo molto cash.

Il polo della paura dovrà contenere dollari investiti in Treasuries lunghi e oro. Si può essere giustamente diffidenti delle prospettive a medio termine del dollaro e dei Treasuries, ma per ancora un paio d’anni saranno ancora quello che sale nei momenti in cui tutto il resto scende. Quanto all’oro, bisogna essere pragmatici. Non c’è un motivo razionale per comprarlo in un mondo che di suo pende verso la deflazione e in cui si monetizza, chi lo fa, il minimo indispensabile e anche meno. Se però si assume il punto di vista per cui tutto ciò che è reale è razionale, allora è molto reale il fatto che una parte del mercato crede all’oro ed è convinta (con buona pace di Krugman che dice che il dibattito sulle politiche monetarie e fiscali diventa ogni giorno più primitivo) che stiamo andando verso l’iperinflazione.

Il polo della crescita va riempito di petroliferi, minerari, ciclici e tecnologia. Non importa che la Cina abbia programmi di lungo periodo di acquisti stabili e massicci di materie prime, perché i mercati faranno lo stesso salire e scendere selvaggiamente i titoli del settore a seconda di come vanno i Cds sulla Lanconia, che di materie prime ne consuma proprio poche.

Quando la Lanconia va male, quindi, si possono comprare questi comparti a prezzi molto convenienti, salvo venderli quando è cessato l’allarme. I paesi emergenti, dal canto loro, sono ovviamente parte integrante di questo polo.
Tra i due poli, si diceva, il cash, di cui è bene avere un’idea dinamica e diversificata. Australia e Canada sono ideali come parcheggio, hanno poco debito, molte risorse, un quadro politico stabile e una natura felicemente ibrida di sviluppati-emergenti. A chi si preoccupa delle loro fluttuazioni di cambio va rammentato che anche noi fluttuiamo visti da loro ed è meglio assumere il punto di vista di valute strutturalmente forti piuttosto che quello di noi deboli. Gli euro liquidi andranno invece collocati nel polo della crescita. L’Europa crescerà poco, lo sappiamo, ma l’euro, finché sarà vissuto come l’antidollaro, resterà positivamente correlato alla crescita globale.

Una volta costruito un portafoglio di questo tipo (senza leva se possibile) ci si può mettere a sedere e attendere. Poiché le fasi di paura possono presentarsi all’improvviso e andarsene altrettanto velocemente è meglio essere opportunisti e approfittarne piuttosto che cercare di anticiparle.
Per fare un esempio pratico, in questo momento ci troviamo in una fase intermedia. Due settimane fa ci trovavamo nel mezzo di una fase di paura e due mesi fa eravamo in piena psicologia da crescita.

Se è corretta l’ipotesi per cui un ciclo favorevole dovrà convivere a lungo con problemi strutturali pesanti vedremo una serie molto lunga di oscillazioni ampie con poche probabilità di esiti estremi. Il debito pubblico non se ne andrà via in due giorni ma non se ne andranno via facilmente nemmeno i grandiosi piani cinesi di diventare la prima potenza economica entro 15 anni.
Le oscillazioni saranno talmente frequenti da offrire buone possibilità di ritorno anche muovendo ogni volta solo piccole quote di portafoglio, il 5-10 per cento, da un polo all’altro. Spostamenti maggiori espongono al rischio di capitolazione nel caso si sbaglino i tempi. Meglio andare nella direzione giusta con il freno a mano tirato piuttosto che muoversi in folle e prima o poi sbandare. In un mondo volatile è meglio essere maratoneti e operare aggiustamenti piccoli ma costanti piuttosto che essere scattisti, cavalcare le onde con gusto con la polizza dello stop loss in tasca e svegliarsi la mattina con un mega gap di apertura che fa strame dello stop.

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.