Società

ECONOMIA E BORSE SU STRADE SEPARATE

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Aumenta il divario tra la realtà e il sentiment della comunità finanziaria. La prima si riassume in un
andamento ancora fiacco per l’economia, incapace di riprendersi in maniera decisiva dalla depressione bellica di
marzo-aprile; il sentiment più favorevole emerge invece dalla continua ascesa delle Borse, al traino di una Wall
Street il cui indice S&P 500 ha messo a segno un 20% dai minimi di metà marzo ed un +10% da inizio anno
(contro un +20% per il Nasdaq Composite, sempre dal 1° gennaio).

Di per sé non ci sarebbe alcuna
contraddizione: le Borse, si sa, anticipano l’economia reale, anche se sarebbe meglio dire che in realtà cercano
solo di farlo, e non sempre ci riescono. Il punto è proprio questo: anche lo scorso anno, superato il trauma
dell’attacco alle Torri, l’azionario si mosse al rialzo anticipando una ripresa economica. L’idea era che si
sarebbero ripetute le passate esperienze di inizio anni ’80 o ’90, con le Borse in risalita ancora prima della fine
della recessione, e poi capaci di dare il meglio di sé nei soli primi sei mesi successivi al minimo congiunturale. Chi
voleva cogliere il treno del rialzo doveva farlo subito, pur correndo tutti i rischi del caso. Ma la storia passata non
si ripete mai in maniera identica, soprattutto quando ci sono di mezzo le bolle speculative e la “geopolitica”; e in
quel caso, colpa o meno della vicenda Iraq, la ripresa americana è sfumata e l’Europa è quasi sprofondata nella
recessione, deludendo le attese degli investitori.

Il tema di un’imminente svolta per l’economia è però tornato
all’ordine del giorno; e anche stavolta i mercati si stanno muovendo di conseguenza. L’incertezza è massima, ma
a giudicare dai primi dati macro relativi al dopo-Iraq, l’impressione è che la prospettiva più credibile sia quella di
una crescita piuttosto fiacca negli USA (+2/+2,5%) e di uno stallo prolungato per l’area euro e il Giappone. Troppo
poco per giustificare un duraturo rialzo di Borsa, che vada al di là dei recuperi fisiologici.

Gli indicatori di fiducia delle famiglie sono rimbalzati dai minimi di marzo, a dire il vero molto più negli
USA che non in Europa, ma sembrano ora stabilizzarsi su livelli incapaci di prefigurare un’accelerazione
dei consumi. Quanto all’attività industriale, il recupero appare stentato anche negli USA, nonostante la maggior
flessibilità strutturale e il contingente vantaggio del dollaro debole; proprio l’assenza di queste due circostanze
rende invece attuale nell’area euro la prospettiva opposta di un’ulteriore frenata, verso la stagnazione più
completa.

Le note dolenti vengono comunque ancora dagli investimenti, al palo, e soprattutto da un mercato del
lavoro che perde sempre colpi, probabilmente anche in maggio. La flessibilità del sistema americano, in grado di
espellere forza lavoro ed esaltare la produttività come mai si era visto in precedenza, è una virtù che sicuramente
aiuta l’equilibrio economico delle singole imprese e favorisce il contenimento dell’inflazione; ma per l’economia nel
suo complesso si traduce in un calo di occupati e in una frenata del reddito disponibile, con effetti che alla fine
rischiano di sovrastare quelli benefici legati al miracolo produttività.

I dati dell’ultima settimana confermano,
con qualche rara eccezione, questo quadro, pur dominato ancora dall’incertezza: da ultimo, ieri l’atteso
indice nazionale del supply management (ex direttori degli acquisti) ha registrato una lettura superiore a quella di
aprile, ma sempre in territorio di “contrazione economica” (sotto, cioè, quota 50), smorzando così gli entusiasmi
suscitati venerdì dalla lettura a sorpresa dell’indice rilevato nel solo distretto di Chicago (una delle poche
eccezioni favorevoli di cui dicevamo, balzato a quota 52,2).

Nell’area euro, invece, lo stesso indicatore è
addirittura sceso a quota 46,8, da 47,8 in aprile, toccando minimi da 16 mesi a questa parte per la componente
produzione, da 28 mesi per i nuovi ordini e da 24 mesi per l’occupazione; per l’indice complessivo siamo ai minimi
dal gennaio 2002 e all’ottava contrazione negli ultimi 8 mesi. Qui in Europa, più che una svolta sembrerebbe
prefigurarsi un’ulteriore frenata, e, al contrario che negli USA, anche nel comparto servizi (i dati non manifatturieri
sono comunque in programma domani).

In tutte le più recenti indicazioni, la variabile occupazione rimane una
delle più sacrificate; al momento le imprese non sembrano quindi affatto intenzionate a riassumere, e questo
spiega il permanere delle richieste di sussidio su livelli molto elevati (la media delle ultime quattro settimane è
posizionata attorno a 430mila unità) e la continua emorragia di posti di lavoro anche negli USA.

Proprio venerdì
avremo i dati sull’occupazione di maggio, da cui dovrebbe emergere un nuovo calo di 50mila unità circa, con le
quali la caduta degli ultimi quattro mesi toccherebbe le 575mila, un segnale in tutt’altra direzione rispetto a quelli
registrati nell’81-82 o nel ’90-91. E mentre oggi sono in programma i dati di Challenger sui licenziamenti del
mese di maggio, aumentano le probabilità di ulteriori interventi da parte delle Banche Centrali.

Giovedì si
terrà l’attesa riunione della BCE e grazie ad un’inflazione che in giugno dovrebbe finalmente scendere sotto la
soglia del 2% (+1,9% la stima flash resa nota ieri), le remore ad un taglio molto netto dei tassi dovrebbero essere
superate. Su 32 economisti interpellati da Reuters, 20 ora si attendono il mezzo punto di riduzione, mentre i
rimanenti puntano ancora su un più modesto 0,25%. Ma nella situazione in cui ora versa l’economia continentale,
e con il dollaro più competitivo che preme, c’è da chiedersi se anche un mezzo punto possa dare il via
all’auspicata svolta.

*Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim.