(WSI) – «Io e Bush non abbiamo la stessa filosofia politica». L’Oracolo di Omaha ha parlato, lapidario e tranchant come suo solito. E si è messo a consigliare John F. Kerry. La scelta ha stupito tutti.
Warren Buffett, il secondo uomo più ricco d’America dopo Bill Gates (che egli considera un suo figlioccio) il più grande investitore di Wall Street dei tempi moderni che possiede pacchetti importanti della Corporate America (Cola Cola, American Express, McDonald’s, Wal-Mart, il Washington Post, solo per citarne alcuni), è senza alcun dubbio il grande saggio della finanza. Le ha imbroccate tutte o quasi, l’ultima sulla bolla internet.
Aveva detto che sarebbe scoppiata quando tutti gli altri, compreso il neo premio Nobel per l’economia, Edward C. Prescott, sostenevano che i valori di borsa non erano gonfiati, e aveva ritirato gli investimenti della sua Berkshire Hathaway dai titoli roventi. E’ stato l’unico tra i grandi a sfuggire al grande bagno. Dunque, sul suo fiuto economico nessuno nutre dubbi. Ma il salto in politica?
Nella sua lunga storia di successo non si era mai esposto. Conservatore persino nella gestione del portafoglio, non ha mai scelto un partito politico, ma semmai degli uomini. E se ne è sempre vantato, anche quando ha annunciato il sostegno allo sfidante democratico. L’anno scorso aveva scelto Arnold Schwarzenegger che lo aveva ufficialmente nominato consigliere personale, per aiutarlo ad affrontare il rompicapo del budget della California.
E proprio in quell’occasione, Buffett si era preso una reprimenda del Wall Street Journal perché aveva sostenuto tesi che la bibbia della Borsa riteneva poco liberiste. La rottura con la Bushnomics è avvenuta su un tema che sta particolarmente a cuore allo gnomo del Nebraska: il taglio delle tase sui dividendi. Nel maggio del 2003, Buffett aveva scritto un articolo sul Washington Post definendo la legge, poi approvata dal Congresso, «un perfetto esempio di economia del voodoo» che avrebbe alimentato trucchi contabili stile Enron e avrebbe spostato ancor di più i benefici fiscali sui ricchi.
Sì, proprio lui si è messo alla testa di una vera e propria campagna contro i ricchi che diventano più ricchi grazie a una politica economica che ritiene sbagliata. C’è dietro l’eco della campagna combattuta da anni per la trasparenza e una nuova governance delle imprese. Buffett è stato uno dei più duri accusatori di una finanza che aveva trasformato gli imbrogli in sistema. Si è sempre vantato di aver fatto i soldi grazie ai dividendi, e di percepire uno stipendio di soli 100 mila dollari l’anno come amministratore della Berkshire.
Miliardario e moralista, sostenitore di una etica degli affari vecchio stampo che diffida delle stregonerie finanziarie moderne e, quando compra, lo fa soppesando i valori reali. In uno dei suoi ultimi messaggi agli investitori, ascoltati come vaticini, ha apprezzato Google (non è vero, dunque, che detesta la new economy), perché è un motore di ricerca che funziona. E’, in altri termini, un prodotto reale.
Che cosa non gli piace, dunque, di Bush? Ha diffidato fin dall’inizio del coté affaristico del quale si è circondato. Non condivide una politica fiscale troppo iniqua. E, soprattutto, teme gli effetti che gli squilibri nella finanza pubblica e nei conti con l’estero, provocheranno sull’economia americana e mondiale. La Berkshire ha in portafoglio 12 miliardi di valute estere: euro, yen, sterline, franchi svizzeri, ma non dollari. Perché Buffett è convinto che il biglietto verde è destinato a restare debole a lungo, non ci sono alternative per ridurre un disavanzo con l’estero che arriva al 5% del prodotto lordo.
A Kerry ha consigliato di aggiustare la politica fiscale e soprattutto di tappare il buco nel bilancio federale, passato in tre anni da un surplus di qussi il 3% a un deficit di oltre il 4%. Una ricetta risolutiva, lo sfidante democratico non ce l’ha. Ma per Buffett la riproposizione della Bushnomics, a questo punto, è troppo rischiosa.
Ma il saggio del Nebraska non è l’unica star della finanza a spendersi per Kerry. A fianco del senatore democratico è sceso in campo, con un piglio meno tecnico e molto più militante, George Soros. Ungherese di nascita, ebreo, di una famiglia sfuggita prima al nazismo poi al comunismo, allievo di Karl Popper nei suoi anni giovanili a Londra, tanto da chiamare Open Society il think tank aperto a Budapest nel 1991, il grande speculatore, il terrore dei cambi valutari, l’uomo che nel 1992 mise in ginocchio la sterlina e poi la lira, accelerando una delle più catastrofiche crisi del dopoguerra, ha passato il bastone del comando ai figli e si è lanciato in una vera e propria crociata contro Bush.
Lo attacca sull’Iraq senza andare troppo per il sottile: «Abbiamo creato più terroristi di quanti ne abbiamo uccisi». Denuncia come catastrofiche le conseguenze dei twin deficits (pubblico ed estero). Ha speso 25 milioni di dollari di tasca propria, tanto che i repubblicani lo accusano di essersi «comprato» il Democratic Party.
Certo è che Kerry, partito con meno quattrini di Bush e senza il sostegno che il presidente aveva nella business community, si trova adesso pieno di fondi e di consensi ben al di là di quelli tradizionali (Hollywood, Broadway e l’alta finanza ebraica di Wall Street). C’è chi attribuisce a Soros persino ambizioni politiche personali. Non è da escludere, ma, giunto ormai a 74 anni, preferisce fare il kingmaker.
Certo, ha introdotto una tale novità nella campagna elettorale che Newsweek gli ha dedicato una copertina dal titolo intrigante: «Può un miliardario battere Bush? Come George Soros aiuta a trasformare la politica americana». In fondo sia lui sia Buffett, due leggende della finanza, sono uomini d’altri tempi, del primo secolo americano. Quanto potranno influenzare l’America del nuovo secolo?
Nella notte, i duellanti per la Casa Bianca si sono affrontati sulle questioni interne, soprattutto sull’economia. Il presidente arriva alle elezioni sull’onda di una ripresa economica e di una campagna irachena costellata di errori. Esattamente al contrario del padre. Paga sul piano elettorale la carenza di posti di lavoro (il primo presidente in 72 anni, dai tempi di Hoover, ad aver distrutto più posti di lavoro di quanti ne abbia creati).
E quella che Kerry chiama la middle class squeeze, perché per la prima volta in 30 anni, cioè dai tempi di Nixon, il reddito medio delle famiglie si è ridotto. Nessuno dei due, in realtà, ha una ricetta a lungo termine (come sottolineava ieri il Financial Times) in grado di affrontare il grande cambiamento economico-sociale che attraversa l’America, generando ondate di incertezza e vulnerabilità incomprensibili da questa parte dell’Atlantico, in una Europa che ristagna galleggiando nella sua aurea mediocritas.
Ma anche sull’economia, come sulla guerra, il mondo è diverso visto dal Vecchio e dal Nuovo Continente. Quella che agli europei appare come l’iperpotenza arrogante che impone il suo tallone imperiale sull’universo intero, agli americani sembra un paese fragile, assediato da un mondo ostile e aggressivo, incerto sul futuro, in difesa, non all’attacco. Forse, se anche noi assumessimo il punto di vista degli altri (invece di chiedere di farlo solo agli yankee) potremmo guardare con un’ottica diversa anche alla sfida tra Bush e Kerry.
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