Società

ECCO IL FUTURO: SALARI PIU’ BASSI, MAGGIORE DISOCCUPAZIONE

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*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – «Il ritornante “Celeste Impero” sarà, per l’Occidente, il massimo problema economico-sociale del secolo, forse di tutto il secolo. Il problema che ci pone è che a “parità di tecnologia” in un’economia globalizzata “l’Occidente ad alto costo di lavoro è destinato a restare senza lavoro, perché il lavoro va ai poveri che lavorano per poco e così i Paesi ricchi vanno in disoccupazione”».

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Così ha scritto Giovanni Sartori, docente universitario negli Stati Uniti e un maestro della politologia di matrice liberale, sulla prima pagina del Corriere della Sera di domenica 3 luglio. D’altro canto, in un recente convegno il vicepresidente del Consiglio italiano, Giulio Tremonti, che più volte si è espresso su questo tema, ha rincarato la dose affermando che «la globalizzazione è stata la più grande follia della seconda metà del Novecento». Queste due prese di posizione – che in buona sostanza non si discostano da quanto abbiamo sempre sostenuto su queste colonne – dimostrano che si sta cominciando a sgretolare il muro dell’«economicamente corretto», ma dello scientificamente insostenibile.

Infatti la «discesa in campo» dei paesi a bassi salari, il cui peso è enormente aumentato all’inizio di questo decennio con l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), sta provocando inevitabilmente un’emigrazione delle attività produttive dai Paesi ricchi e, quindi, una pressione al ribasso sui livelli occupazionali e salariali dei paesi di vecchia industrializzazione. In termini economici, questi ultimi sono entrati in un ciclo lungo deflazionistico, che è solo agli inizi. I motivi sono semplici.

Paul Samuelson ha vinto il Premio Nobel per l’economia grazie a un teorema secondo cui, se non vi sono ostacoli di qualsiasi tipo agli scambi commerciali, il prezzo dei fattori di produzione tende ad uguagliarsi. I principali fattori di produzione sono due: capitale (inteso come costo del denaro e come dotazione tecnologica) e lavoro. Ora, il costo del denaro in Europa e in Cina è uguale; anzi, è inferiore in Cina (per una serie di ragioni che sarebbe lungo spiegare e che non sono determinanti per le tesi sostenute in questo articolo). Lo stesso vale per la tecnologia. La Cina compra i macchinari più sofisticati e, contrariamente a quanto si crede, il grosso delle fabbriche cinesi non ha impianti obsoleti, ma addirittura molto più moderni di quelli europei ed americani.
Questo processo è accelerato dall’enorme mole di investimenti diretti (oltre 50 miliardi di dollari l’anno) che effettuano in Cina le imprese americane, europee e giapponesi.

Inoltre, attraverso delle forme contrattuali di compensazione (grandi commesse cinesi a società occidentali in cambio del trasferimento tecnologico) sta rapidamente costruendosi una sofisticata industria delle macchine. Lo stesso vale per le competenze dei lavoratori, sia nel campo della ricerca sia a livello manageriale. Non bisogna dimenticare che le Università cinesi (che sono estremamente selettive) sfornano circa due milioni di ingegneri l’anno. La grande differenza è dunque il costo del lavoro, che è, come sostiene Giovanni Sartori, da 10 a 30 volte inferiore a quello europeo o americano. Dato che l’enorme forza lavoro di riserva, rappresentato da circa 800 milioni di contadini, non fa prevedere un’impennata delle retribuzioni cinesi, è chiaro che il teorema di Samuelson dell’uguaglianza del costo dei fattori di produzione si traduce in termini semplici nelle delocalizzazioni (ossia nel trasferimento delle attività produttive verso i paesi a bassi salari), in una pressione al ribasso sui salari occidentali e soprattutto in un aumento della disoccupazione nei nostri paesi.

La principale risposta dei liberisti sostenitori della globalizzazione si riassume, in buona sostanza, nella tesi secondo la quale la globalizzazione comporta in realtà solo una ridistribuzione geografica delle attività produttive, che alla fine del processo, seppure temporaneamente doloroso, porterà alla creazione di una maggiore ricchezza per tutti. In altri termini, i paesi a bassi salari si concentreranno nelle produzioni ad alta intensità di lavoro (tessile, giocattoli, ecc.), mentre i paesi di vecchia industrializzazione si concentreranno nelle attività produttive più sofisticate. Questa tesi fa però acqua da tutte le parti.

In primo luogo, non si capisce perché paesi come la Cina e l’India si debbano limitare a questo tipo di produzioni. E infatti non lo fanno, né soprattutto lo faranno. Questa previsione è del resto confermata dal tragitto seguito da altri paesi a bassi salari, come la Corea del Sud e Taiwan, che competono giustamente su tutto lo spettro dei prodotti. La differenza tra questi paesi, da un canto, e la Cina e l’India, dall’altro, è che le loro dimensioni permetteranno loro di diventare paesi altamente industrializzati, ma di continuare contemporaneamente ad avere centinaia di milioni di contadini che continueranno a calmierare l’aumento dei loro salari. In pratica, la globalizzazione ha fatto sì che le loro dimensioni demografiche, che prima rappresentavano uno svantaggio, si siano già trasformate in un vantaggio competitivo.

Ma c’è di più, le grandi industrie occidentali stanno tagliando drasticamente i loro investimenti in Ricerca e Sviluppo, come mette in evidenza un recente studio del Credit Suisse a causa dell’ossessione degli utili a breve termine imposta dai mercati finanziari. Quindi, «l’inseguimento» tecnologico di Cina ed India, che già oggi sta avvenendo ad una velocità stupefacente, viene paradossalmente facilitato dal fatto che l’Occidente sta marciando sul posto e investe sempre meno nella ricerca. Inoltre, le dimensioni dei mercati cinese ed indiano fanno sì che, da un canto, in questi paesi si definiranno gli standard industriali e, dall’altro, che le economie di scala aggiungeranno un ulteriore vantaggio competitivo ai prodotti cinesi ed indiani.

L’altra tesi «economicamente corretta» invocata dai liberisti fautori della globalizzazione è la teoria dei «vantaggi comparati» di David Ricardo. L’economista inglese dell’Ottocento sosteneva che le merci devono essere prodotte dove costa meno. Quindi, secondo Ricardo, il Portogallo avrebbe agito economicamente in modo irrazionale se avesse deciso di sviluppare un’industria tessile, dato che ai portoghesi conveniva concentrarsi invece nella produzione del vino (campo nel quale vantavano un vantaggio rispetto agli inglesi) che avrebbe venduto agli inglesi in cambio di prodotti tessili, che gli inglesi producevano a costi inferiori.

Analogamente la Gran Bretagna avrebbe fatto male a cercare di sviluppare una propria industria viti-vinicola, ma avrebbe fatto meglio a comprare il vino portoghese. Quindi, lo scambio commerciale tra vino portoghese e prodotti tessili esaltava i rispettivi vantaggi competitivi ed era benefico per ambedue le economie. Coloro che invocano questa teoria dimenticano una delle premesse del mondo in cui viveva Ricardo: ossia l’immobilità o la difficoltà di trasferimento delle conoscenze tecnologiche.

Oggi viviamo in un mondo completamente diverso, in cui le tecnologie sono disponibili ovunque, ma dove si è anche drasticamente accorciato il ciclo di vita di un nuovo prodotto. Dunque c’è da domandarsi (come fa Giovanni Sartori), cosa compreranno Cina ed India dopo che avranno finito di acquistare quei macchinari occidentali che stanno portando i loro sistemi produttivi all’avarguardia tecnologica a livello mondiale.

A nostro parere: nulla o molto poco. In proposito, basti ricordare che la prima guerra dell’oppio fu scatenata nella prima metà dell’Ottocento dall’Impero britannico contro il divieto di importazione di oppio decretato dall’Imperatore cinese, poiché questa era l’unica merce che la Cina allora importava mentre esportava grandi quantità di porcellane, sete, eccetera. In conclusione, la globalizzazione vuol dire grandi guadagni per quelle società e per quelle imprese che vanno a produrre nei paesi a bassi salari per poi reimportare i prodotti sui mercati occidentali. Ma per le economie dei paesi occidentali vuol dire deindustrializzazione e per la popolazione vuol dire salari più bassi e maggiore disoccupazione.

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