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(WSI) –
Il vero mistero della questione iraniana si chiama Mahmoud Ahmadinejad. Lui minaccia di «cancellare Israele dalla carta geografica», lui ironizza pesantemente sull’Olocausto, lui esprime disprezzo verso l’Occidente e provoca persino la Russia, lui sfida le «inutili» decisioni dell’Onu e annuncia che l’Iran sarà presto una «superpotenza». Una definizione, questa di «superpotenza», che mal si attaglia alla nascita di un nucleare civile. E’ insomma lui, il Presidente, a dar l’impressione di voler essere attaccato da chi non accetta un Iran dotato dell’atomica. O per lo meno è lui, Ahmadinejad, a fare e a dire tutto il possibile per fornire munizioni ai falchi e rendere più probabile un ricorso alla forza.
Perché? Dal momento che Teheran non può ignorare quanto sia grande il potenziale militare americano – per parlare soltanto di quello – le possibili spiegazioni sono soltanto tre. E forse nascondono, tra un’asprezza e l’altra, gli ultimi spiragli disponibili per cercare davvero quella «soluzione diplomatica» che tutti affermano di auspicare.
La prima ipotesi è che Mahmoud Ahmadinejad sia semplicemente un fanatico ignorante delle cose del mondo e dunque incapace di valutare la portata del rischio, oppure pronto a correrlo in spregio della società che lo ha eletto. Il premier israeliano Olmert ha detto proprio ieri che Ahmadinejad è «uno psicopatico» che parla come Hitler. Può darsi, ma il poco che si sa dei suoi trascorsi non depone a sostegno di questa tesi.
La seconda possibilità è che Ahmadinejad non consideri attuabile un attacco. Che veda gli Usa prigionieri del pantano iracheno, che conti sulla opposizione all’uso della forza di Russia e Cina (e probabilmente di molti europei), che faccia leva sugli altrui interessi e sulle conseguenze che un blitz contro l’Iran potrebbe avere: il prezzo del petrolio alle stelle, una ulteriore fiammata terroristica senza frontiere, la rivolta in Iraq dei fratelli sciiti rimasi legati a Teheran, l’aggravamento dei problemi in Afghanistan, la destabilizzazione di governi arabi amici dell’Occidente a cominciare dall’Arabia Saudita e lo stabilimento così di una unità di azione con Al Qaeda.
Se di questo si tratta, ha ragione Shimon Peres quando dice che Ahmadinejad «rischia di fare la stessa fine di Saddam». Non perché l’Iran possa essere invaso come l’Iraq da truppe di terra, ma piuttosto perché la prospettiva di una proliferazione nucleare senza controllo innescata dalla paventata bomba iraniana rappresenta una «linea rossa» che la comunità internazionale (e tacitamente anche la Russia e la Cina) non si può permettere di superare. Come ha opportunamente ricordato Henry Kissinger, il gioco della deterrenza reciproca può funzionare quando i soggetti con il grilletto atomico sono pochi. Ma se diventassero molti sull’esempio iraniano (e nord-coreano) basterebbe un qualunque dottor Stranamore, ovunque nel mondo, a scatenare l’apocalisse. E questo gli Usa sono i primi (ma non gli unici, si pensi a Israele) a non poterlo consentire.
La terza ipotesi è che Ahmadinejad sia impegnato in una dura battaglia politica sul suo fronte interno, e che la questione nucleare sia diventata strumento di questa battaglia. Alì Khamenei, Rafsanjani, Khatami, tutti i nomi più noti della Nomenklatura religiosa sciita si sono schierati pubblicamente con Ahmadinejad e l’«irreversibilità» della sua corsa al nucleare dichiarato civile. Ma esistono indizi di una crescente difficoltà di rapporti tra il laico ex pasdaràn Ahmadinejad e i settori più conservatori del clero sciita (l’ultimo episodio riguarda il permesso alle donne, concesso dal Presidente, a recarsi allo stadio). Gli Ayatollah non gradirebbero il populismo di Ahmadinejad. Ahmadinejad utilizzerebbe il nucleare proprio per dare forza al suo populismo nazionalista.
E’ verosimile che ognuna delle tre interpretazioni contenga qualche granello di verità. Ma se a tutti risulta chiaro che il ricorso alla forza avrebbe conseguenze potenzialmente catastrofiche, come si può esplorare fino in fondo l’alternativa negoziale? In tempi recenti lo hanno indicato ufficiosamente gli europei, il senatore repubblicano Lugar e altri esponenti Usa, la Trilaterale, un gruppo di ex ministri degli Esteri che ha scritto a Bush: per scoprire le carte di Ahmadinejad e degli altri centri di potere iraniani prima di giungere a sanzioni non simboliche o all’ultima ratio del ricorso alla forza, bisogna che Washington parli con Teheran. Come si era concordato di fare sull’Iraq, prima che Ahmadinejad si ritirasse dal progetto. Tutto, il precedente iracheno visto oggi, la crisi di popolarità interna, l’opportunità di fare politica prima di fare la guerra, dovrebbe spingere Bush a provarci. E così ne sapremmo di più anche su Ahmadinejad.
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