Società

E’ TROPPO PRESTO PER L’INFARTO DEL GOVERNO

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Quella che si è aperta nel centrodestra è una fase di competizione acuta, dunque rischiosa, perché un organismo spinto di continuo fino al limite dello stress rischia sempre un infarto. Ma di competizione si tratta, non di uno stato di pre-crisi.

Di stop and go come quello di ieri ne vedremo a bizzeffe, fino a gennaio, data fatidica della verifica-cum-rimpasto, quando sul ceppo del sub-governo ci sarà nientedimeno che la testa di Giulio Tremonti, osso duro e francamente difficile da decollare. E fino alle europee di giugno, quando si faranno i conti in voti, e se la lista Berlusconi, qualunque essa sia, non pareggia almeno la partita con la lista Prodi, davvero si apre il dopo-Berlusconi.

Per il momento, chi ha interesse davvero a una crisi di governo e a rischiare le elezioni anticipate?

Non certo Berlusconi. Lui le elezioni le minaccia, ma sa che oggi le perderebbe. Non tanto perché il bilancio del suo governo è ancora troppo magro per essere ricompensato agli elettori. Ma soprattutto perché non potrebbe indirle contro la sinistra, ma sarebbe costretto a far campagna contro una parte della sua alleanza. Non avendo avuto il coraggio di mettere in riga – o fuori – Bossi quando aveva la forza per farlo, ora è legato a filo doppio alla Lega, che può solo ammansire, non schiaffeggiare.

D’altra parte, il premier non può appellarsi al popolo contro An e Udc, negando così in radice il progetto politico che lo ha fatto vincere, emigrando dal centro per inseguire la xenofobia della Lega. C’è un solo scenario da incubo che potrebbe spingere Berlusconi a forzare i tempi: se il Lodo cade e si riapre il processo. Ipotesi al momento improbabile.

Non ha interesse alle elezioni Fini, che ha cominciato un gioco per il quale ha bisogno di tempo: interromperlo ora vorrebbe dire spezzare la parabola che lui spera ascendente al suo punto più basso, nel difficile momento in cui si sta staccando dalle pulsioni più nere del suo elettorato primordiale. Né vi ha interesse Follini, che deve crescere prima di fare la voce grossa, e che deve anche fare i conti col suo leader, Casini, più tentato da una designazione che da una sostituzione del Cavaliere, magari diventando il capo del partito unico con Forza Italia.

E non ha interesse Bossi. Il quale lucra al momento il massimo dalla sua politica di doppiezza: conquista consensi a destra e manca (ci sono sondaggi che lo accreditano al sette per cento dopo la storia delle pensioni e del voto agli immigrati) e porta a casa le sue riforme. In più Bossi non sembra avere l’autonomia da Berlusconi, politica ed extrapolitica, per far saltare il banco. Come la ritirata di ieri, la prima dopo mesi, dimostra.

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