La continua ascesa del prezzo del petrolio e l’atteso rialzo dei tassi di interesse americani vengono indicati come le principali cause della tendenza al ribasso delle borse. Quest’analisi, apparentemente incontestabile, non fornisce una spiegazione esauriente ad un movimento al ribasso dei mercati azionari, che non ha le caratteristiche di una correzione, e che soprattutto avviene in un contesto economico in cui si prevede un rafforzamento della crescita dell’economia mondiale.
I motivi sono presto detti. In primo luogo, l’aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve è un evento preannunciato da tempo e quindi dovrebbe essere già stato scontato. Inoltre attesterebbe la solidità della ripresa statunitense e sicuramente non ne rappresenterebbe una minaccia, tanto più che nelle ultime settimane Alan Greenspan e gli altri dirigenti della banca centrale statunitense hanno ripetutamente rassicurato i mercati che hanno intenzione di procedere con grande cautela (ossia aumenteranno i tassi lentamente e con gradualità).
In secondo luogo, l’aumento del prezzo del petrolio non è ancora tale da permettere di parlare di uno choc petrolifero. Studi del Fondo Monetario Internazionale e dell’OCSE sostengono che un aumento del prezzo del greggio di 10 dollari il barile che si protrae per un anno riduce la crescita economica dello 0,5%. Si tratta di una percentuale significativa, ma non assolutamente drammatica, se si rammentano le recenti previsioni di crescita del 4,6% dell’economia mondiale.
Inoltre, per i paesi europei l’aumento del prezzo del greggio viene in parte attutito dall’indebolimento del dollaro nei confronti dell’euro e l’impatto sul consumatore finale di un ulteriore aumento del prezzo del greggio potrebbe essere ridimensionato da una riduzione dei prelievi fiscali sulla benzina e sugli altri prodotti derivati dal petrolio. Quindi, non vi è ancora alcun motivo per parlare di un vero e proprio choc petrolifero che potrebbe mettere in ginocchio le economie occidentali.
È comunque indubitabile che il prezzo del petrolio è diventato un fattore d’incertezza che pesa sui mercati finanziari e che un’ulteriore impennata del greggio (alcuni prevedono che il prezzo schizzerà fino a 50 dollari il barile) peserebbe sulla crescita economica. Ma molto probabilmente l’andamento delle borse in quello che sembra un movimento ribassista di lungo termine sta indicando uno scenario completamente diverso, i cui tasselli stanno lentamente cominciando ad emergere.
L’esaurimento degli effetti delle manovre fiscali e monetarie americane rende possibile un rallentamento della crescita dell’economia statunitense, che è reso ancora più probabile dall’effetto frenante dalla correzione del mercato dei capitali che ha provocato un sensibile rialzo dei tassi a lungo termine, che influenzano due motori della crescita statunitense: il settore edile e immobiliare e quello dei consumi.
In un contesto di rallentamento dell’economia il rialzo dei tassi a breve termine e l’aumento del prezzo del petrolio hanno un effetto frenante molto più forte. E effettivamente alcuni segnali cominciano ad emergere. Ad esempio, negli Stati Uniti le scorte di automobili nuove sono ai massimi degli ultimi 13 anni. I prezzi delle materie prime (se si esclude il petrolio) stanno scendendo (e la spiegazione non può essere solo il previsto rallentamento della crescita cinese).
Per quanto riguarda i chips da Taiwan si segnala un eccesso di offerta. Inoltre, le borse asiatiche (e soprattutto quella della Corea del Sud e di Taiwan), che sono i più affidabili termometri della congiuntura internazionale, si muovono al ribasso. Quindi, non si può escludere che i mercati azionari, che l’anno scorso erano saliti anticipando giustamente la ripresa dell’economia mondiale, stiano oggi temendo che il rallentamento della crescita americana venga accelerato pericolosamente dal rialzo del petrolio e dei tassi. In questo caso saremmo ad un punto di svolta della congiuntura internazionale, di cui, come è accaduto in passato, il prezzo del greggio è un detonatore.
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