Il mercato sta dando in queste battute corpo all’ennesima reazione emotiva nei confronti del titolo ePlanet, la cui lunga telenovela è giunta a una svolta cruciale, ma è ben lungi dall’aver trovato una soluzione (o un lieto fine a sorpresa).
Che per ePlanet dovesse aprirsi una nuova stagione era scontato e che restassero in campo due sole ipotesi di salvataggio era altrettanto chiaro. Purtroppo ancora una volta è stata la seconda scelta quella migliore. Tra un aumento di capitale che rifornisse la società di nuovi fondi, corrispondendo anche (come poi avvenuto nella realtà) a un cambio di gestione, e una partnership/fusione con un competitor, la scelta è caduta sulla prima opzione. Anche se in questo caso si tratta di riscrivere completamente, e in termini assolutamente ridimensionati il piano industriale, e senza poter usufruire di quelle sinergie di know-how e di quelle economie di scala che l’accordo con un partner del medesimo settore avrebbero potuto apportare.
Tra sospensioni dalle contrattazioni seguite da gap down e ulteriori sospensioni seguite da gap up, è ovvio che la visione del mercato su questa realtà industriale resta ancora nebulosa e le scelte di investimento sono fatte ancora oggi più su spinte emotive e non su decisioni basate sui fondamentali. I conti sono quelli che probabilmente devono più che mai rappresentare in questo caso il punto unico di partenza. Tenere quindi ben presente che si tratta di una società che è riuscita per un pelo a evitare la bancarotta, i cui conti saranno deboli per un lungo periodo e le cui prospettive di business, e quindi di risultati, sono ridotte di molto. Il tutto in un contesto, che se in questa fase di mercato di certo non premia le società di telefonia, è ancora molto meno generoso con quelli che sono definiti “alternative carrier”. Se i target superiori al prezzo di collocamento (80€) sono da considerarsi assolutamente insostenibili, hanno fallito anche le recenti previsioni, che ancora quest’anno parlavano di una valutazione superiore ai 20€.
Del resto nonostante la flessione praticamente ininterrotta dalla quotazione (mai raggiunto il prezzo di Ipo) e una capitalizzazione che è passata dai €600 milioni a poco di €100 milioni, la quotazione attuale di ePlanet continua a esprimere una valorizzazione di 25,8 volte il valore degli asset a libro, pur a fronte di una società con un ritorno del capitale negativo per più del 100%, un ritorno sugli asset negativo per quasi il 30% e un margine operativo anch’esso negativo per il 61,2%.
Per altro in questa fase resta improponibile una comparazione dei multipli rispetto ai competitor, in quanto “la giovane età” e la delicata situazione patrimoniale nella quale verte ePlanet rende questo tipo di analisi priva di valore rappresentativo. E del resto, prima di vedere il piano industriale che il nuovo management ha intenzione di perseguire, è difficile esprime giudizi di merito e fare previsioni per il futuro. In questa fase, l’acquisto del titolo rappresenta una scommessa di lungo periodo e sarebbe da escludere (per l’eccesso di rischiosità) anche la scelta di una posizione di breve a scopo speculativo. Il titolo sarà probabilmente ancora soggetto nel breve a un flusso di notizie di difficile controllo e prevedibilità da parte del piccolo risparmiatore, che potrebbe non avere protezione o rapida possibilità di uscita dall’investimento in caso di esito negativo. Inoltre il flottante del titolo è assolutamente irrisorio e la media a tre mesi degli scambi si tiene al di sotto dei 35.000 pezzi al giorno. Per altro la difficoltà con la quale si è messa insieme una cordata di salvataggio e il prezzo irrisorio al quale la società è stata praticamente svenduta, dimostrano tutta la valorizzazione che investitori industriali sono disposti a dare a questa società.
Si potrebbe qui aprire l’ennesima polemica sulla stagione di mercato e sulla vigilanza della Consob che hanno permesso a una società come questa di approdare sul mercato. L’importante ora è non ricommettere lo stesso errore verso una realtà che aveva tra i pochi elementi a proprio vantaggio la riconoscibilità del marchio, oggi parzialmente bruciata. Quando è nata ePlanet si proponeva come fornitore di servizi che spaziavano dal voce alla comunicazione a banda larga, dalla connettività a internet all’housing, al web hosting, all’asp fino all’e-commerce. L’obiettivo della società era il raggiungimento della creazione di reti locali in fibra ottica in 15 città italiane, con target focalizzato prevalentemente sulle piccole e medie imprese (che rappresentano l’80% del Pil industriale nazionale), sfruttando l’eventuale effetto positivo di un network localizzato nella parte del paese a maggior tasso di spesa per telecomunicazioni. Al momento della quotazione, la quasi totalità del fatturato del gruppo aveva origine dal traffico voce su clienti sia business che residenziali, incentrato in modo particolare sui servizi cosiddetti di carrier selection con instradamento automatico (quindi sulla componente a minor margine e più contenuto valore aggiunto). Rispetto all’obiettivo iniziale di ridistribuzione del mix di fatturato a favore della trasmissione del servizio a banda larga si è evidenziata una crescita di questo comparto poco soddisfacente, ma al contempo la società ha subito in maniera sempre più stringente la pressione sui margini derivante dalla concorrenza sui prezzi.
Del resto a fronte della mancata raccolta del totale della liquidità necessaria in maniera evidente già prima della fine del 2000 per sostenere gli impegni del business plan presentato in sede di collocamento, il piano di investimenti della società è del tutto insostenibile. Solo che la stessa riduzione delle spese in beni capitali produce l’effetto indiretto di ridurre le potenzialità di redditività, che non possono essere certo bilanciate dalla sola, seppur drastica, riduzione delle spese pubblicitarie e di promozione portata avanti già da due trimestri. Del resto il minor bacino di utenza raggiungibile, la contrazione dovrebbe essere quasi del 50% rispetto alle precedenti aspettative, è di per sé la dimostrazione della difficoltà con la quale si possono generare risultati apprezzabili. Basta una semplice valutazione relativa per comprendere la perdita di profittabilità legata alla riduzione del piano di investimenti: un confronto con i competitor diretti della società a livello europeo (Colt, Jazztel, Energis…) dimostra che in questo comparto un investimento di 1.000$ in 10 anni genera un pari rendimento solo nell’ultimo anno.
Cosa faranno nel frattempo i piccoli investitori italiani?
Nonostante i tanto decantati piani di geomarketing il management ha impiegato quasi un anno per rendersi conto dell’assenza di profittabilità del business della telefonia residenziale, i cui margini, in contrazione a livello settoriale, sono difficili da mantenere su livelli remunerativi perfino per i maggiori operatori, anche in ragione della sempre più forte pressione della concorrenza. E del resto anche i tanto sbandierati accordi, come quello con il consorzio municipale in Toscana, con i quali si è più volte tentati di riportare l’attenzione del mercato sul titolo, si sono tradotti in un impatto pressoché marginale sui risultati aziendali. Sui quali invece ha pesato non poco la dipendenza dalla politica tariffaria della Telecom e dal lento processo di liberalizzazione del settore, fattori per altro prevedibili dall’inizio, così come l’inasprimento della concorrenza anche nel segmento della trasmissione dati. Purtroppo le dinamiche competitive svantaggiose sono state fronteggiate da un management che dichiaratamente non aveva nessuna specifica esperienza proprio nell’area fulcro della strategia industriale, e cioè la gestione delle reti locali di telecomunicazione.
La stessa dinamica di settore appare poco promettente, soprattutto in una fase in cui sempre meno capitali possono essere messi a servizio delle start up. In questo caso poi il business della telefonia richiede ampi investimenti a fronte di un limitato rientro per tempi lunghi di casf flow, in un contesto caratterizzato in Italia da un duopolio serrato e vincolante (Telecom-New Wind) e con gli stessi big player costretti a fronteggiarsi con le inasprite condizioni patrimoniali derivanti dal fenomeno UMTS.
*Donatella Principe è responsabile della ricerca economica presso il centro studi del Gruppo Banca Popolare di Vicenza.