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E’ MORTO ROBERTO FABIANI, INVIATO DELL’ ESPRESSO

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La scomparsa di Roberto Fabiani rattrista profondamente noi di Wall Street Italia. Stimavamo molto Roberto, che da Parigi aveva collaborato con entusiasmo a WSI nella fase di nascita del sito. Insieme con i colleghi dell’Espresso dedichiamo a lui i nostri pensieri, con questo ricordo scritto dal comune amico Gianni Perrelli.

(WSI) – La qualità che più distingue il giornalista di razza è il coraggio. Roberto Fabiani, firma storica de L’espresso, prematuramente scomparso all’età di 64 anni venerdì 20 agosto, lo coniugava con un senso dell’ironia che rendeva il suo stile unico nel panorama dei grandi inviati.

E sapeva temperarlo con un disincanto che lo aiutava ad affrontare anche i passaggi più drammatici con la flemma degli spiriti forti ed equilibrati.

Fra le molteplici peripezie di una carriera straordinariamente ricca di emozioni la pagina di storia più angosciosa che ha vissuto (e magistralmente descritto) fu, nell’agosto del ‘90, l’invasione irachena del Kuwait.

Il fiuto della notizia lo aveva spinto qualche giorno prima nell’emirato. Fu il solo giornalista nel mondo ad assistere all’alba all’arrivo della soldataglia di Saddam e all’occupazione dell’hotel Sheraton dove era alloggiato.

Il solo che potè dare una testimonianza diretta di un evento destinato a sconvolgere lo scenario mediorientale. Nonostante fosse prigioniero degli sgherri iracheni, e con la sua grande esperienza presagisse di andare incontro a una lunga e delicata odissea, conservò la freddezza per trasmettere quella mattina stessa un reportage di rara efficacia, in cui il talento innato della buona scrittura accompagnava senza retorica il pathos dei fatti narrati.

Roberto sulle dinamiche di guerra ne sapeva più di chiunque altro.

Era un esperto di questioni militari e di armamenti. Intuì che le linee telefoniche stavano per essere isolate. Dettò d’istinto prima che la sua voce fosse messa a tacere.

Per un paio di settimane poi in effetti sparì, inghiottito in un campo di concentramento presso Bassora. Fu quindi trasferito a Baghdad, dove gli venne sequestrato il passaporto e trovò rifugio nei locali dell’ambasciata italiana.

Non cedette mai alla paura o allo scoramento. Era attento semmai a sdrammatizzare, a placare lui le preoccupazioni di chi seguiva da lontano la rischiosa precarietà in cui l’amore per la professione l’aveva cacciato.

Inviò articoli di grande impatto emotivo. Scomodi per il tiranno che lo teneva in ostaggio. Rischiosi per i suoi destini personali. Roberto era troppo giornalista per nascondere dietro i veli dell’opportunismo la cruda realtà.

Non era un uomo che scendeva a compromessi. Aveva la schiena dritta in ogni circostanza. Seguiva solo la bussola dell’orgoglio professionale, della consapevolezza del suo valore di cronista. Anche se poi il senso quasi britannico dell’understatement lo induceva a non prendersi troppo sul serio, a non salire in cattedra.

Quando tornò in Italia dopo quasi cento giorni di prigionia preferì tenere il profilo basso, evitando i circuiti del bla-bla televisivo. Reputò superfluo perfino scrivere il libro che da più editori gli veniva sollecitato perché non avrebbe aggiunto nulla ai particolari e alle sensazioni che aveva cesellato nei servizi a caldo.

Era consapevole che il garbo e la discrezione erano valori relativamente apprezzati in un mondo che cominciava a dare troppa importanza all’esibizionismo. Non sapeva vendersi. Ma neanche gli interessava.

Non era un carrierista. Gli bastava una buona storia. Ed era sempre capace di proporne una lettura gradevole. Con il virtuosismo della penna, con un dettaglio originale per rendere con più raffinatezza un’atmosfera.

Riprese a girare per il mondo. Mettendo a frutto le lezioni apprese in gioventù in quel formidabile laboratorio di giornalismo che fu Panorama di Lamberto Sechi.

Sulla scia di quei primi successi era approdato a L’espresso, dove firmò alcune fra le più esplosive inchieste degli anni di piombo e portò alla luce i retroscena dello scandalo P2.

Più tardi si scoprì una grande passione per i viaggi e i reportage nelle zone calde. Abile com’era nell’esorcizzare con il fatalismo i pericoli. Come quando nel 1986 raggiunse, a piedi dal Pakistan, Kabul assediata dai mujaheddin durante l’invasione russa.

Ciò che più lo esaltava era proprio il piacere della narrazione. Aveva uno stile da scrittore, ricco di felici metafore, di prospettive originali.

Raccontò la guerra di religione in Irlanda dalle vetrine di un pub affacciato sulla linea che divide il quartiere cattolico da quello protestante.

Negli anni della sua corrispondenza da Parigi rappresentò una Francia inedita, vista attraverso le lenti di una sensibilità sempre rivolta all’aspetto umano piuttosto che alle alchimie della politica.

Un giornalista di razza. Forse troppo gentleman ed elegante nell’animo per poter essere consacrato come un maestro, in un ambiente in cui troppi sgomitano per guadagnare il centro della scena.

Una sera sfortunata negli anni ‘80 lo arrestarono per una faccenda di visti all’aeroporto di Mogadiscio. Raccontava di aver trascorso la notte sereno in gattabuia. Aveva con sé un buon libro e una presa di tabacco per la pipa.

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