Dopo che si è scoperto che la Sars sta mietendo più vittime e creando più problemi di quel che si pensasse, soprattutto in Cina e nel circostante Sud-est asiatico, l’attenzione, per il futuro dell’economia mondiale, è tornata agli Stati Uniti.
Le notizie sull’andamento del primo trimestre non erano buone: l’aumento dei consumi, calcolato su base annua è stato solo dell’1,6 per cento mentre si puntava sul 2,2. L’aprile dovrebbe risentire positivamente della fine molto rapida della guerra in Iraq.
Wall Street però non ha atteso il consuntivo di aprile per rinfrancarsi. Ha ricevuto una energica spinta dai risultati di Procter & Gamble riguardanti il primo trimestre di quest’anno, il terzo del suo esercizio finanziario che va dal primo luglio di un anno al 30 giugno dell’anno seguente. Le vendite sono aumentate del 22 per cento fino a 10, 6 miliardi di dollari; gli utili del 7,7 per cento, fino a 1,2 miliardi di dollari. Per il quarto trimestre dell’esercizio, quello che va da aprile a fine giugno Procter & Gamble, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, prevede un aumento delle vendite del 4,5 per cento. La dinamica della componente estera sarà invece solo il 2-3 per cento, per difficoltà competitive, nonostante che la Sars debba comportare maggiori consumi di prodotti legati al suo decorso. I futures a Wall Street hanno avuto così un netto rialzo.
In verità la Procter & Gamble non è una rondine isolata di primavera. Gli utili per quasi il 62 per cento delle compagnie, comprese nelle 500 del listino di Standard & Poor’s, registrano nel periodo gennaio-marzo un andamento positivo superiore a quello che avevano immaginato gli analisti. Però questi risultati sono stati ottenuti in gran parte con riduzioni di costi, non già tramite aumento del fatturato. Fatturato che si è accresciuto solo del 2 per cento, mentre gli aumenti di utili hanno toccato il 12 per cento. Procter & Gamble invece mostra anche un fatturato in crescita: i consumi quotidiani, negli Stati Uniti, si stanno muovendo.
Per l’Europa, che è a rimorchio dell’economia americana, è un buon segno. Ma sarebbe meglio che fossimo noi a darci la spinta, anche per non vivacchiare in eterno sulla dinamica degli altri.
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