E IN ITALIA SCOPPIA
LA MODA
DEI TITOLI CINESI

di Redazione Wall Street Italia
8 Maggio 2005 16:42

Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Quando a gennaio la Banca popolare di Milano ha tenuto il suo Forum annuale sul risparmio, la star dell’evento aveva un nome impronunciabile per molti presenti. Ma Xd Chen, capoeconomista (cinese) di Bnp Paribas per l’Asia, l’hanno ascoltato tutti: spinta dal boom industriale e commerciale, celebre per le proteste a lei rivolte dai politici occidentali e per il successo nei media, la Cina sta diventando l’ultimo beniamino dei risparmiatori italiani.

Non è, non ancora, un’invasione come quella di pantaloni e magliette. Sono primi passi, in genere mossi da buoni padri di famiglia relativamente cauti e agiati. Ma nell’Italia stordita dai postumi della bolla hi-tech, scossa da Parmalat, Cirio o Argentina, l’Impero di mezzo dà segni di poter diventare una moda. In piena inversione di tendenza.

Nei primi tre trimestri del 2004 in Italia i fondi hanno segnato una raccolta complessivamente negativa per 6 miliardi. Oggi rappresentano l’11% del portafoglio dei risparmiatori: nel 2000 erano il 16%. Eppure l’amore per Pechino e dintorni è un’altra storia: «Obiettivo Cina», il fondo lussemburghese di San Paolo asset management, vale 80 milioni ma è cresciuto fra il 5 e il 10% solo negli ultimi mesi.

Intesa Private Banking, per venire incontro alle tante richieste, ha di recente costituito un’emissione obbligazionaria strutturata (capitale e cedola minima garantiti a 5 anni) legata alle vicende delle Borse cinesi, a quella indiana e allo Standard & Poor’s 500: in due settimane i risparmiatori hanno assorbito tutti i 50 milioni. Per non parlare dei fondi gestiti con Merrill Lynch, Jp Morgan o Fidelity. In realtà, già nell’annus horribilis 2003 Pioneer Greater China Equity, un fondo azionario, aveva centrato in Italia una raccolta positiva netta di 50 milioni (intanto «Giappone» e «Pacifico» erano negativi di oltre 30). Con successo ripetuto poi nel 2004 e 2005.

I numeri sono per ora relativamente trascurabili, la tendenza però no: Intesa, Pioneer e San Paolo da soli rappresentano più di metà del risparmio gestito in Italia. E la stessa Bipiemme Gestioni investe nell’azionario della «Grande Cina» per 20 milioni di euro, distribuendo anche fra i piccoli.

«L’economia cinese vive un boom che desta l’attenzione dei risparmiatori», nota il direttore commerciale di Bipiemme Gestioni Maurizio Riboni. Più cauto, Antonello Di Mascio, responsabile del marketing di Intesa private banking, parla anche di una «bolla di aspettative» legata all’«effetto mediatico» della Cina. «L’opportunità è reale – avverte -, ma si rischia di confondere la crescita dell’economia con i risultati di Borsa». E Sandro Pierri, di Pioneer Investments, invita alla cautela, con investimenti dall’orizzonte di almeno cinque anni, limitati ed evitando di puntare su singoli titoli.

C’è un’ironia nell’infatuazione strisciante degli italiani. Piazza Affari nel 2004 ha messo a segno una fra le migliori prestazioni delle economie avanzate, Shanghai e Shenzhen fra le peggiori di quelle emergenti. Dal giugno 2001, vittime di torbide privatizzazioni, i due listini sono caduti del 50%. Appesantiti per di più dalla forte svalutazione dello yuan sull’euro, senza peraltro vera libertà di circolazione dei capitali. Di qui la scelta dei gestori italiani di puntare sulle imprese della Repubblica popolare quotate a Hong Kong. Perché il boom c’è: purché la voglia di novità, quando Pechino dovrà liberalizzare le partite finanziarie e rivalutare, non scotti nuove dita imprudenti da questa parte dell’Eurasia.

Copyright © Corriere della Sera per Wall Street Italia, Inc. Riproduzione vietata. All rights reserved