A seconda di come andra’ a finire, ma forse gia’ adesso, il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, potrebbe essere accusato di aver provocato (per l’uso della leva monetaria) sia il formarsi della bolla speculativa della fine degli anni Novanta, che il suo scoppio, con i conseguenti crolli in borsa a partire dal marzo 2000 e le attuali difficolta’ dell’economia USA e mondiale.
La reputazione di Alan Greenspan e’ a rischio. Da che parte oscilla l’ago della bilancia non è cruciale soltanto per il presidente della Fed ma anche per il modo in cui le banche centrali reagiranno ai prezzi delle attivita’ patrimoniali. Se l’economia statunitense scivolerà ancora di piu’ nella recessione o addirittura resterà depressa per anni, la Federal Reserve verrà condannata dalla storia per l’atteggiamento compiacente verso quella che è la più grande bolla speculativa dei mercati azionari nella storia del Paese. Se invece l’economia registrera’ un forte recupero, Greenspan e la Federal Reserve saranno rivendicati.
Il numero uno della banca centrale USA e’ perfettamente conscio del pericolo che sta correndo. A fine agosto, intervenendo al simposio di Jackson Hole, organizzato dalla Federal Reserve di Kansas City, si era difeso dando tre motivazioni. Primo, “era molto difficile identificare con certezza una bolla prima del suo effettivo verificarsi”; secondo, “era tutt’altro che ovvio che le bolle, anche se riconosciute in anticipo, potessero essere sgonfiate senza indurre una contrazione significativa dell’attività economica (proprio il risultato che si cercava di evitare)”; terzo, compito della Fed e’ quello di “mitigare la ricaduta quando questa è in corso e, possibilmente, facilitare il passaggio alla prossima espansione”.
Di queste motivazioni, la prima è sicuramente la meno convincente. Le politiche economiche sono sempre messe a punto in una situazione di incertezza. E i segni evidenti di una bolla speculativa c’erano già, per chi aveva occhi per guardare. Almeno tre delle misurazioni storiche del ritracciamento verso la media davano da tempo segnali negativi: la Q di Tobin, che misura il rapporto tra il valore del titolo sul mercato e il patrimonio netto aziendale; il rapporto ciclicamente modificato tra i prezzi azionari e gli utili aziendali; e infine il premio di rischio sui titoli azionari, definito come la differenza tra il rapporto utili/prezzo e il tasso d’interesse reale.
Greenspan tutto questo lo sapeva, come dimostra la celebre espressione “esuberanza irrazionale” da lui usata nel dicembre 1996 per descrivere la situazione che si era creata. In seguito, pero’, divenne egli stesso il più forte sostenitore della nuova economia, dando gran risalto alla ripresa della crescita della produttività. Il numero uno della banca centrale USA mancò però di sottolineare che questa crescita non giustificava il rialzo dei prezzi azionari.
Veniamo al secondo punto. Una strategia politicamente plausibile sarebbe riuscita a fermare l’espansione della bolla? La risposta di Greenspan è ”no”. Secondo il presidente della Fed, “l’esperienza degli ultimi 15 anni suggerisce che la stretta monetaria, che sgonfia i prezzi delle azioni senza far diminuire l’attività economica, è spesso stata associata a successivi rialzi dei prezzi azionari”.
Certo, è plausibile che la bolla non si sarebbe potuta far scoppiare senza che l’economia subisse ne risentisse fortemente. Ma una tale mossa sarebbe bastata alla Fed? La crescita della domanda della fine degli anni ’90 e del 2000 bastava a giustificare una stretta nella politica monetaria. Allo stesso tempo, uno sforzo deliberato per far scoppiare la bolla avrebbe incontrato forte avversità dagli ambienti politici. Se ci avesse provato, con ogni probabilità Greenspan non sarebbe ancora il numero uno della banca centrale. Ma con ogni probabilita’ era proprio quella la strada da percorrere.
Questo ci porta al terzo punto. Mettiamo che il tentativo di far scoppiare la bolla sarebbe stato politicamente pericoloso. Sarebbe però stato auspicabile dal punto di vista economico? Greenspan definisce il rallentamento della crescita come “il risultato da evitare”. Ma tale riluttanza sarebbe del tutto irrazionale qualora l’unica alternativa fosse una debolezza ancora maggiore e più difficile da gestire.
Per questo, ciò che accadrà nei prossimi anni e’ estremamente importante. Prendere di mira a breve termine l’inflazione di beni e servizi è, secondo le più ortodosse teorie della macroeconomia contemporanea, la via per stabilizzare l’economia a lungo termine. Ma è forse necessario abbandonare l’ortodossia quando i movimenti dei prezzi delle attivita’ patrimoniali, che a breve termine non costituiscono un pericolo inflazionistico, rappresentano un’enorme minaccia per la stabilità economica.
Tale ortodossa indulgenza fa anche parte, come e’ naturale, dell’ultimo documento del Fondo Monetario Internazionale, il World Economic Outlook. In esso si osserva che “il generale rallentamento del 2000-01 si è dimostrato più moderato della maggior parte dei ribassi precedenti”. Per gli Stati Uniti l’Fmi prevede una crescita, del 2,6% nel 2003 e del 2,2% nel 2002.
Ma esistono rischi esterni a tale previsione: per esempio, l’aumento dei prezzi del petrolio nell’evento di una guerra contro l’Iraq. Ma ancora più cruciali sono le dinamiche dell’economia statunitense del dopo-bolla. Il Giappone negli anni ’90 provoco’ una bolla nei mercati azionario e immobiliare: ora è da oltre dieci anni che combatte per riprendersi dalle sue conseguenze. Finora, gli investitori hanno continuato ad consolarsi con l’idea che nel caso degli Stati Uniti di bolla ce n’è soltanto una. Ma gli USA stanno rischiando di creare una seconda bolla nel tentativo di evitare le conseguenze della prima. Se i prezzi delle case registrassero un’impennata per poi cominciare a scendere nuovamente, come è successo in Giappone, molte proprietà potrebbero restare intrappolate in partecipazioni in perdita. Inoltre, lo stesso mercato azionario rimane sopravvalutato secondo gli standard storici. Ulteriori scivoloni sono dunque molto probabili.
La deflazione è un pericolo in più all’interno di uno scenario da dopo-bolla. Se gli ottimisti la vedono giusta sul potenziale di crescita degli Stati Uniti, l’eccesso di capacità, e quindi la pressione al ribasso sul tasso di aumento degli stipendi e dei prezzi, crescerà se l’economia si espandera’ meno del 3-3,5% annuo. Con un’inflazione già molto bassa, è necessario un recupero molto forte se gli Stati Uniti vogliono evitare la deflazione.
La Federal Reserve è ben al corrente di questi rischi, come dimostra un documento sull’esperienza nipponica, secondo cui “la drammatica scivolata del Giappone nella deflazione è arrivata del tutto a sopresa, sia per chi era coinvolto direttamente nelle decisioni, sia per gli osservatori, e questo fu il fattore decisivo da cui dipese la mancata capacità da parte delle autorità di fornire uno stimolo sufficiente a garantire la crescita e un’inflazione positiva”.
Ma essere consapevoli del pericolo non basta. Non solo la Federal Reserve deve perseguire una politica di espansione, ma deve anche evitare di sostituire la bolla dei prezzi del mercato azionario in via di sgonfiamento con un’altra bolla ugualmente destabilizzante, quella dei prezzi delle case.
Greenspan ha presentato un progetto chiaro su come le banche centrali dovrebbero affrontare il problema dei prezzi degli immobili: non fare nulla finché la bolla persiste, ma fare tanto non appena questa crolla. Gli Stati Uniti faranno da test per questo progetto. Se la ripresa sarà forte e sostenuta, la Fed e la sua ortodossia saranno rivendicate. Altrimenti, come io ritengo più probabile, il prendere semplicemente di mira i prezzi dei beni e dei servizi per un anno o due a questa parte si dimostrerà una manovra insufficiente a ridare stabilità alle economie. L’economia USA, Greenspan e le politiche delle banche centrali sono ora sotto processo. Il tempo darà il suo verdetto.
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