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DOLLARO DEBOLE, FINE DI UN’ERA

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Molti ritengono che la debolezza del dollaro sia unicamente un fenomeno
temporaneo proprio di ogni moneta che alterna sui mercati dei cambi, per
svariati motivi, periodi di forza a periodi di debolezza. Questa chiave di
interpretazione, oggi sicuramente predominante, addebita l’attuale calo del
valore del dollaro ad una politica deliberatamente voluta da Washington con
l’obiettivo, da un canto, di rafforzare la ripresa statunitense e,
dall’altro, di ridurre il preoccupante disavanzo commerciale che ormai
supera il 5% dell’intero Pil statunitense.

Quindi, la caduta del dollaro,
per quanto dolorosa possa essere, non è che un sintomo di una fase
congiunturale dell’economia mondiale, durante la quale gli Stati Uniti fanno
pagare al resto del mondo il costo di aver vissuto negli ultimi anni al di
sopra dei loro mezzi in base al principio, caro a Washington, secondo cui «il
dollaro è la nostra valuta, ma è il vostro problema». E in effetti il calo
del valore del dollaro si traduce in un deprezzamento del valore dei crediti
concessi dagli stranieri a Washington e, quindi, in un trasferimento dei costi
a carico di coloro che comprando obbligazioni, azioni americane o investendo
negli Stati Uniti hanno di fatto finanziato il disavanzo americano.

Secondo
alcuni, il problema non esiste neppure, poiché se la ripresa americana si
confermerà forte, riprenderanno ad affluire negli Stati Uniti enormi
quantità di capitali stranieri, che permetteranno di continuare a finanziare
il disavanzo commerciale statunitense producendo addirittura il risultato di
far salire il valore del biglietto verde. Insomma in soldoni, nulla di nuovo
sotto il sole.

Questa chiave di lettura rischia di trascurare alcuni fenomeni
strutturali che fanno ritenere che, al di là degli aspetti congiunturali,
stiamo molto probabilmente assistendo al progressivo sgretolamento di un
sistema monetario internazionale fondato sul dollaro. Molti fattori inducono a
ritenere che non stiamo solo assistendo al calo del valore del dollaro, ma al
declino dell’egemonia della valuta statunitense. Innanzitutto, il calo del
dollaro non è un fenomeno degli ultimi mesi, ma degli ultimi trent’anni.

Infatti, dall’inizio degli anni Settanta, quando la dichiarazione di Nixon
di inconvertibilità del dollaro in oro ci ha fatto entrare nell’era dei
cambi flessibili, il dollaro si è mosso in un’unica direzione, ossia al
ribasso, all’interno di un canale discendente, in cui ha stabilito massimi e
minimi sempre decrescenti. La debolezza del dollaro è dunque un fenomeno
strutturale che periodicamente viene oscurato da rimbalzi del biglietto verde,
che comunque non hanno mai avuto la forza di far salire il valore della moneta
americana al di sopra del livello massimo raggiunto nella precedente fase di
ascesa.

In secondo luogo, il declino dell’egemonia del dollaro è dovuto
alla perdita di peso relativo dell’economia statunitense a causa della
crescita dell’economia europea e al crescente peso di quelle asiatiche.
Quindi, il dollaro è passato da una situazione di incontrastata egemonia ad
una realtà in cui deve fare i conti con la concorrenza di almeno un’altra
moneta (l’euro) e mezzo (ossia lo yuan cinese). E questo cambiamento
comincia a pesare, poiché molti paesi arabi si sono messi ad usare l’euro
quale strumento di pagamento e perché ora anche la Russia di Putin sembra
intenzionata a definire in euro il prezzo del petrolio, ossia della principale
materia prima del mondo.

Il terzo motivo è che è andato in frantumi il
paradigma economico e politico su cui gli Stati Uniti hanno cercato nell’era
dei cambi flessibili di ridefinire la loro leadership economica e finanziaria.
Esso consisteva nel fare degli Stati Uniti, e in particolare di Wall Street,
il centro nevralgico del sistema finanziario internazionale capace di attrarre
i capitali di tutto il mondo e, quindi, in grado di finanziare il disavanzo
americano e nel contempo di dirigere i flussi internazionali dei capitali. In
contropartita dell’afflusso di una buona parte dei risparmi del resto del
mondo, gli Stati Uniti si erano assunti il ruolo del «consumatore di ultima
istanza dell’economia mondiale» con il risultato di diventare l’unica
vera locomotiva dell’economia mondiale (secondo l’FMI, il contributo
americano alla crescita mondiale è stato negli ultimi anni superiore al 75%).

Il crollo delle borse ha inferto un duro colpo a questo modello di sviluppo
«americanocentrico» e ha riportato all’ordine del giorno la questione del
dollaro. Infatti, l’inaridirsi degli afflussi di capitali stranieri non si
è tradotto in una rovinosa caduta del valore del dollaro, poiché è stato
per il momento parzialmente compensato dagli acquisti di dollari da parte
delle banche centrali dei paesi asiatici, ma questi interventi non sono
bastati per far diminuire le preoccupazioni sulla sostenibilità del deficit
commerciale americano e del suo crescente debito estero.

Sui mercati dei cambi
si stanno giocando contemporaneamente due partite tra loro strettamente
intrecciate. La prima consiste nello stabilire quali paesi e in che misura
dovranno pagare il risanamento degli squilibri americani. La seconda partita
è se il riassorbimento di questi squilibri potrà essere concordato oppure,
come sembra, sarà il frutto di forti strappi e, quindi, se la crisi del
modello su cui si è fondata l’economia negli ultimi anni sarà superata
attraverso uno sforzo congiunto dei Grandi del mondo oppure se sfocerà, come
sembra oggi molto probabile, in una nuova forma di protezionismo attraverso la
formazione di grandi blocchi economici e commerciali regionali.

Per questi
motivi le convulsioni attuali del dollaro devono essere viste come
l’espressione di una crisi del paradigma economico e politico dominante
negli anni Novanta e anche come la dimostrazione che non è ancora finita
l’opera di pulizia dei mercati finanziari iniziata nel marzo del 2000.
All’appello manca ancora lo scoppio della bolla del dollaro, che era parte
integrante e fondamentale di quell’euforia.

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