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(WSI) – Cento anni fa si parlava di “diplomazia del dollaro”: una politica iniziata dal Presidente Taft e dal suo segretario di stato Philander C. Knox (dal cui nome deriva il famoso deposito di oro di Fort Knox). Poi, con la guerra contro la Spagna del 1898 con cui si applicava fino alle estreme conseguenze la dottrina di Monroe del 1821 (“l’America agli americani”), Teddy Roosvelt di fatto stabiliva il principio che anche un intervento armato era giustificato, allorché uno Stato americano era soggetto al potenziale controllo di Paesi europei.
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Ma in generale l’uso della forza non era necessario: bastava utilizzare il dollaro per assicurare l’influenza diplomatica e politica degli Stati Uniti. Questa diplomazia del dollaro continuò nei decenni, ma fu solo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che si trasformò in “supremazia del dollaro”: con la creazione del sistema monetario internazionale di Bretton Woods.
Esso prevedeva rapporti fissi fra oro, dollaro e monete degli altri principali Paesi, le cosiddette monete convertibili: il rapporto oro/dollaro in particolare era fissato a 35 dollari ogni 30,10 grammi di metallo giallo (un’oncia). Alla fine degli anni ’60, tuttavia, con l’apparire di importanti eccedenze delle importazioni di beni e servizi sulle esportazioni e con la politica americana di grandi investimenti all’estero, i dollari in circolazione e soprattutto quelli accolti nell’attivo delle banche centrali europee aumentarono a dismisura, per cui si determinò uno squilibrio importante fra i valori di tali dollari e l’oro nelle casse del Tesoro americano in cui i dollari medesimi erano convertibili.
A questo punto vi erano due strade: aumentare nettamente il prezzo dell’oro (di almeno 30 volte per ripristinare durevolmente l’equilibrio) oppure dichiarare l’inconvertibilità del dollaro in oro al prezzo ufficiale. La prima via aveva un grave difetto agli occhi americani: era considerata una diminutio capitis, un regalo a chi aveva speculato contro il dollaro.
Apparve molto più attraente l’altra via. E così il 15 agosto 1971 il Presidente Nixon abolì la convertibilità del dollaro a rapporto fisso con l’oro e il dollaro divenne la sola e unica base del sistema monetario internazionale. Si entrava nell’era dell’ “egemonia del dollaro.” Gli Stati Uniti, infatti, diversamente da tutti gli altri Paesi hanno potuto, a partire da allora, finanziare automaticamente il proprio deficit e debito con l’estero a fronte del fatto che le banche centrali dei vari Paesi detengono quella moneta per denominare i loro crediti sull’estero e per i pagamenti internazionali. Gli Stati Uniti, cioè, hanno esercitato in questi ultimi decenni il signoraggio nei confronti del resto del mondo, così come una banca centrale lo esercita nei confronti dei cittadini detentori di biglietti.
Se gli Stati Uniti avessero mantenuto un sostanziale equilibrio della loro bilancia dei pagamenti, “l’egemonia del dollaro” e la demonetizzazione dell’oro avrebbero potuto continuare per chissà quanto tempo. Ma essi non hanno saputo resistere alla tentazione di utilizzare fino in fondo il loro privilegio.
Per via degli squilibri sempre più grandi fra importazioni (quasi 2000 miliardi di dollari) ed esportazioni (poco più di 1000 miliardi) e degli enormi trasferimenti di capitali all’estero per investimenti, essi hanno inondato il mondo di dollari nella speranza che il mondo, e cioè soprattutto le banche centrali, lo acquistassero senza limiti. Ma ad un certo momento i banchieri centrali hanno cominciato a fare ciò che qualsiasi banchiere fa: diversificare le sue attività nella certezza che prima o poi l’architettura stessa del sistema monetario internazionale sarà modificata.
Così, paradossalmente, quasi per una nemesi storica, in questa situazione di debolezza strutturale del dollaro simile a quella della fine degli anni ’60 (ma in condizioni ancora peggiori di allora) si riaffaccia l’opzione di ripristinare l’equilibrio fra dollari in circolazione e oro attraverso una rivalutazione del prezzo di quest’ultimo. Ma questa volta, appunto, lo squilibrio è ben maggiore per cui ben più sensibile dovrà essere la rivalutazione del metallo giallo.
Occorrerebbe portare il valore dell’oro a 3500, forse a 5000 dollari l’oncia. È questa la prospettiva in cui si muovono i più avveduti investitori internazionali ed è per questo, e non per banali considerazioni legate all’inflazione, che il prezzo dell’oro sale.
Se ciò costituisce l’inevitabile punto di arrivo, non aspettiamoci però che gli Stati Uniti accettino tutto questo senza combattere: la posta in gioco (mantenere il signoraggio oppure perdere questo privilegio e avere gli stessi vincoli esterni degli altri Paesi) è talmente alta che essi faranno sforzi immani per contrastare il rialzo del prezzo dell’oro e per cercare di dimostrare che anche l’oro, e non soltanto il dollaro, non si presta ad essere la base del sistema monetario internazionale.
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